Come ha affermato Giorgio Cerati nel commentare Il disagio giovanile e adolescenziale oggi “riflettere sul disagio delle giovani generazioni significa considerare il cambiamento della domanda, ma anche l’aumento esponenziale delle espressioni di malessere che si sta verificando da oltre 10 anni ed esploso con massima evidenza in concomitanza con le restrizioni della vita sociale imposte dall’emergenza Covid. Per questo poniamo la questione del disagio giovanile e adolescenziale in termini interdisciplinari, di ampio respiro, per favorire sia la conoscenza che la presa di coscienza del problema e per individuare le risposte mobilitando i soggetti della comunità non solo sanitaria, ma educativa, civile, politica, della cultura e dei media”.
Il recente libro di Giovanni Stanghellini, psichiatra e psicoterapeuta, docente all’Università di Chieti, offre l’opportunità di interessanti approfondimenti per comprendere senza preconcetti e moralismi il vissuto dei giovani nel contesto dell’epoca attuale. Il volume si intitola “Selfie. Sentirsi nello sguardo di un altro”, è stato edito dalla Feltrinelli nel gennaio 2020 poco prima del diffondersi di questa pandemia. Stanghellini inizia il suo testo dal Museum of Modern Art di New York , dove, scrive, “è esposta la Notte stellata di Van Gogh, autentico crocevia di visibile e invisibile, eternità e contingenza, memoria e immaginazione, realtà e visionarietà, umanità e follia. Ma il quadro non si vede. Si vede, invece, la calca dei turisti che eclissa il quadro. La folla volge le spalle al quadro e ‘guarda in macchina’ [lo smartphone].” “La visita a un museo o a un luogo di pellegrinaggio turistico”, continua Stanghellini, “è particolarmente istruttiva. Davanti alle più grandi meraviglie, la maggioranza dei contemporanei si rifiuta di farne esperienza e preferisce lasciare questo compito alla macchina fotografica. Ma qui la ‘macchina fotografica’ non inquadra il dipinto, bensì le facce dei visitatori. Tutti sorridono. A chi sorridono? E perché? Ciascuno sembra sorridere a un suo fantasma”.
Stanghellini afferma di aver avuto l’ispirazione per il suo scritto quando ha letto di un tragico fatto di cronaca: un adolescente precipitato da un tetto mentre si ritraeva in un selfie e che questo ‘evento’ gli ha fatto ricordare un celebre verso di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Si pone quindi una serie di domande che sono ineludibili per chiunque voglia essere vicino con amore al dramma dei giovani senza volerli stigmatizzare come strani o folli: “Gli occhi di chi ha visto per ultimi mentre precipitava? Dallo sguardo di chi si è sentito accompagnare nei suoi ultimi istanti di vita?”, Poi si chiede: “Un adolescente che rischia la vita per un selfie esprime una passione superiore alla passione per la propria vita?”, E si dà una risposta che illumina la possibilità di dare un senso a certi comportamenti giovanili, trovandone l’origine nelle ‘passioni’ costitutive di ognuno di noi: “Mi arrischio a pensare che sia in gioco la passione per il visibile, legata a doppio filo a un’altra intramontabile passione: quella per l’identità”.
Secondo Stanghellini, questa diffusa pratica del selfie, soprattutto nei giovani, non è certamente una patologia, però è sintomatica di un disagio psicologico alla cui radice sta lo smarrimento della propria identità: “questa dissolvenza della carne richiede una sua compensazione, una protesi che restituisca al corpo una sua consistenza, una sua cospicuità, necessaria alla persona che di quel corpo è titolare per esserci, per acquisire una forma, una identità”. “L’epoca del selfie propone due fenomeni tra loro distinti, ma strettamente legati: l’evanescenza della carne e la dissolvenza della durata”. Il tempo è vissuto solo nell’istante: si tratta del “mito quotidiano dell’istantaneità come soddisfazione allucinatoria del bisogno di vicinanza o dis-allontanamento”. L’autore sostiene inoltre che “nel mondo contemporaneo assistiamo ad una esternalizzazione della carne, cioè del corpo-che-sono che si ribalta in un corpo esposto alla vista dell’altro, un porno-body che necessita dello sguardo altrui per prendere coscienza di sé”.
Questa, sostiene l’autore, è la stessa dinamica che sottende ad alcuni disturbi psichiatrici oggi così diffusi come l’anoressia e i disturbi del comportamento alimentare: “Nel mondo della persona anoressica viene meno la possibilità di fondare il proprio Sé sul sentirsi; è possibile solo sentirsi quando ci si sente guardati. Il selfie testimonia dunque “una crisi del Sé situato, del Sé in situazione, di sentirsi situati nel mondo”. “Tutto si svolge in una temporalità in cui viene meno la durata e trionfa l’istantaneità”. È pertanto “solo lo sguardo dell’altro che mi restituisce il mio corpo: videor ergo sum, sono visto dunque sono”.
È il frutto amaro dell’omologazione culturale di cui parlava Pasolini (Scritti Corsari) a proposito della ‘scomparsa delle lucciole’ e la fine delle culture identitarie contadine e paleoindustriali, in cui progressivamente il rapporto con la realtà concreta (le lucciole) viene meno e viene sostituito dalle immagini e dalle rappresentazioni dei mezzi di comunicazione.
Umberto Galimberti in “La parola ai giovani” (Feltrinelli 2018) a proposito dei mezzi informatici afferma che essi “alterano il nostro modo di fare esperienza avvicinandoci il lontano e allontanandoci il vicino. Mettendoci in contatto non con il mondo, ma con la sua rappresentazione ci consegnano una presenza senza respiro spazio-temporale, perché rattrappita nella simultaneità e nella puntualità dell’istante”.
Come si capisce, il problema della comunicazione ‘a distanza’ che distrugge la comunicazione ‘in presenza’ è una espressione del processo di allontanamento della realtà dall’esperienza, iniziato molto prima che questa pandemia portasse alla necessità di mantenere ‘la distanza’ nelle relazioni interpersonali per evitare il contagio. È un aspetto dovuto al nichilismo esistenziale e culturale di cui tutti facciamo esperienza “quella specie di intimità con il nulla (nihil in latino) che si sta impadronendo un po’ alla volta di tanti giovani. Che svuota di valore le loro vite, e le spinge a ribellarsi a ogni regola, anche quelle più elementari di umanità, perché tanto non c’è nulla per cui valga la pena”. (Antonio Polito, Corriere della Sera, 17 settembre 2020).
La nostra è inoltre l’epoca in cui l’altro, afferma Stanghellini, non ha più un volto, “ossia un altro con il cui sguardo si dialoga, un interlocutore: è uno sguardo senza volto”.
Il testo di Stanghellini, oltre a fornire il giusto atteggiamento da avere da parte di psichiatri e psicoterapeuti per una vera relazione terapeutica di comprensione e cura, apre a mio avviso a una radicale modificazione di prospettiva su cosa significhi oggi educare i giovani a ritrovare se stessi. È illuminante in questo senso la lettura che Stanghellini fa nel suo libro del famoso dipinto del Caravaggio “L’incredulità di San Tommaso”.
“Il gesto di Tommaso”, scrive l’autore, “rappresenta la necessità dell’accertamento materiale, visualizzato dal dito nella piaga, e contemporaneamente dal suo sguardo così prossimo – potremmo dire accostato – al costato di Cristo, quasi a toccarlo con gli occhi”. Questo accostarsi di Tommaso alla ferita nella carne di Cristo è possibile per la relazione di ‘accompagnamento’ di Cristo che accoglie il bisogno di Tommaso.
“Cosa opporre – dice Stanghellini nell’epilogo del suo testo – a questo piano inclinato dell’esperienza che si fa mera istantaneità? Cosa può fornire stabilità a un Sé minacciato dalla frammentazione? Se esiste forse questa possibilità si condensa nella figura dell’evento. L’evento, si potrebbe dire, è ciò che accade se si è nell’avvento, cioè nell’atmosfera in cui si è disposti e disponibili all’incontro con l’alterità – anche nella dimensione traumatica, catastrofica. L’evento punta un indice verso di me, un indice che mi indica e giunge fino a toccarmi, e mi obbliga a prendere atto di qualcosa che io sono e non sapevo di essere. L’evento é l’inatteso, ciò che emerge, inaspettato… l’evento e ciò che comunica con la carne e con l’eternità”.
Risulta evidente, dunque, che curare ed educare i giovani in questo particolare momento di crisi, è possibile solo se l’adulto nei diversi ruoli, terapeutico, educativo o genitoriale, si mette in gioco con tutta la propria umanità in una relazione che aiuti il giovane ad ‘esserci’, a riconoscere i propri bisogni emotivi e di senso e a riconoscere la realtà anche quella più drammatica, nella sua alterità, cioè come ‘evento’, come imprevisto a cui aprirsi nell’attesa che assieme si possa comprenderne il significato misterioso e profondo per la propria persona. È aiutarsi nel “riconoscimento della ferita” come percorso di risveglio della coscienza del proprio sé e del rapporto con la realtà, anche quella più traumatica.
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