Si è tanto parlato in questo periodo, e giustamente, di sanità, dei pregi e difetti della sua organizzazione, di quello che ha funzionato o che non ha funzionato di fronte alla pandemia, dell’eroismo dei suoi operatori, e così via, ma si è inevitabilmente finito col trascurare altri aspetti del fenomeno salute che sono almeno altrettanto rilevanti. Non intendiamo riferirci alle patologie diverse da Sars-CoV-2, di cui abbiamo più volte già trattato sul Sussidiario, bensì a quella galassia di attività che chiamiamo sociosanitarie e che si estendono fino alle problematiche di natura più tipicamente sociale.
Ma non sono solo il periodo e la pandemia a farci distrarre da altro: nemmeno nel Pnrr (altrimenti detto Recovery Fund) si è trovato spazio per le attività sociosanitarie (e sociali).
Se per salute non intendiamo semplicemente l’assenza di qualche specifica malattia (o anche più di una), ma senza andare alla definizione dell’Oms che è più un’idea di benessere che non di salute, è concetto ormai acquisito che per migliorare la nostra salute, o per curarla quando in vari modi è offesa, non serva solo la sanità: dalle infinite pubblicazioni scientifiche sul tema delle disuguaglianze sanitarie e di come queste influenzano la salute, al fenomeno delle badanti che si prendono cura di pazienti in varia maniera definiti fragili, siamo di fronte ad una enorme tipologia di situazioni dove la sanità è solo una parte della soluzione (o, per lo meno, attenuazione) del problema. La malattia e la cura spesso rappresentano solo la punta di un iceberg che ha una base molto ampia, costituita da un prima e un dopo che non chiama in causa solo la sanità, ma anche l’assistenza sociosanitaria e sociale.
Per sgomberare il campo da eventuali equivoci, diciamo subito che in questo contesto non c’è un modello organizzativo consolidato o condiviso, e ciò di sicuro costituisce un problema (o almeno un vulnus, una disopportunità, se non addirittura un problema), ma aggiungiamo anche che il nocciolo della questione non sta nell’identificazione del modello organizzativo, che per ragioni di sussidiarietà potrebbe essere anche diverso, ad esempio, da regione a regione (o addirittura da territorio a territorio). Il cuore della questione si gioca al livello dei diritti o, per dirla con un linguaggio più specifico, a cosa si deve intendere con il concetto di “Livello essenziale di assistenza” (Lea), vale a dire quel livello di assistenza che in quanto essenziale deve essere garantito a tutti i cittadini alle stesse condizioni e senza distinzione di reddito o condizione sociale.
Non è un caso che ad oggi non si sia arrivati ad un accordo (tra Stato e Regioni) su cosa si debba intendere con il termine “Livelli essenziali di assistenza sociale” (Liveas), e che le varie proposte formulate a diversi livelli di governo siano ferme e congelate da oltre dieci anni. Ma non è solo il livello più strettamente “sociale” ad essere critico, perché anche quello “sociosanitario” non è meno problematico.
In questo caso i Lea ci sono, ma si riducono ad alcune attività da fare: l’assistenza domiciliare (Adi), l’assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale, e tutto l’insieme di attività che costituiscono il “Capo IV” (assistenza sociosanitaria) del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ha definito i Lea.
A dire il vero, all’articolo 21 del Dpcm, all’interno di un capitolo intitolato “percorsi sanitari integrati”, si afferma che “il Servizio sanitario nazionale garantisce l’accesso unitario ai servizi sanitari e sociali, la presa in carico della persona e la valutazione multidimensionale dei bisogni, sotto il profilo clinico, funzionale e sociale”. Tutto a posto, allora? Neanche per idea, e la difficoltà a definire i Liveas ne è una dimostrazione lampante.
In apparenza, ma soprattutto in termini generali e astratti, tra gli esperti si registra un sostanziale accordo su tre punti: da una parte, che i percorsi assistenziali integrati debbano essere fondati sulla valutazione multidimensionale dei bisogni e sul progetto di assistenza individuale (Pai); dall’altra, che le attività a livello locale debbano essere organizzate (come modalità, procedure, strumenti) dalle regioni e province autonome; e come terzo elemento, che gli interventi debbano favorire la permanenza delle persone assistite al proprio domicilio.
Sono tre punti necessari, ma non sufficienti, soprattutto se quello che manca è un preciso progetto complessivo di presa in carico del soggetto fragile, soggetto che si vede garantito per le sue necessità sanitarie (tipicamente in capo al medico di medicina generale, con il supporto di tutti gli erogatori di prestazioni), ma scoperto per quelle sociosanitarie e/o sociali (per le quali, ad esempio, non è prevista una precisa figura di riferimento, e non è pensabile che se ne occupi il mmg).
Inoltre la questione è vista sempre dal punto di vista dell’offerta dei servizi, ed il punto di partenza non mai è la persona, i cui bisogni non hanno soluzione di continuità.
A ulteriore dimostrazione che quelli appena accennati sono il vero punto critico della questione valga come esempio tra i tanti il caso della riforma lombarda (legge 23/2015), che dopo avere affermato nell’articolo 1 che “il sistema sanitario, sociosanitario e sociale integrato lombardo … è costituito dall’insieme di funzioni, risorse, servizi, attività, professionisti e prestazioni che garantiscono l’offerta sanitaria e sociosanitaria della regione e la sua integrazione con quella sociale di competenza delle autonomie locali” non ha saputo dare completa realizzazione e corpo a tale principio, continuando a considerare l’assistenza sociosanitaria (e sociale) una appendice minore dell’assistenza sanitaria.
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