Famiglia, non basta un assegno

L'inverno demografico è il guaio più tremendo dell’Italia. L'assegno familiare varato dal governo è importante, ma non basta. Il resto lo può fare solo l'amore per la vita

L’inverno demografico è il guaio più tremendo dell’Italia, quello che in un certo senso sintetizza tutti i suoi guai: non si fanno figli, non si genera futuro. La denatalità impedisce la crescita.

Ed è di sicuro una riforma epocale il varo dell’assegno unico per figlio, ufficialmente confermato dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, con tanto di plauso pontificio in presenza, agli Stati generali della natalità, venerdì scorso. Proprio “riforma epocale” l’ha definita Draghi. La definizione è giusta non perché il provvedimento metterà a posto tutto come una bacchetta magica (da 20 miliardi, assegni anche fino a 250 euro mensili per figlio), ma perché segna e attua una triplice novità di impostazione: 1) è unico, quindi sostituisce misure frammentate e disomogenee, semplificando e razionalizzando; 2) è universale, cioè va a tutti i figli indipendentemente dalle caratteristiche dei genitori; una parte dell’assegno è fissa per tutti, una parte varia con il reddito: ciò significa che della povertà si tiene giustamente conto, ma una politica per le nuove generazioni non può ridursi al contrasto alla povertà; 3) è durevole: l’assegno spetta al figlio da due mesi prima della nascita ai 21 anni, cioè alla soglia di ingresso nell’età adulta. In questo modo si afferma un’attenzione all’impegno della famiglia in quanto tale, che deve mantenere ed educare il figlio ben oltre il tempo della nascita e della prima infanzia.

A questo punto la domanda, ovvia, è: basterà? Da solo, no. Ma intanto possiamo constatare che, dove l’assegno unico è stato applicato, ha dato risultati positivi. Specialmente lo si può osservare in Francia. Naturalmente non è solo il sostengo economico diretto che può aiutare la natalità. Ci sono altri fronti su cui agire: il lavoro, le misure di conciliazione, i servizi educativi. Per non parlare della casa. Sono tutti fronti su cui non facciamo gran bella figura nel confronto con i Paesi europei. Siamo a livelli molto bassi di occupazione femminile, ed è appurato che non è la donna che lavora che fa meno figli, ma quella senza lavoro. Progressi li abbiamo fatti nei congedi genitoriali, però fatto 100 il livello di “copertura” di Svezia e Finlandia, e quasi zero quello di Grecia e Portogallo, l’Italia è a quota 30: cioè ancora poco. Analogamente per gli asili nido: sono troppo pochi, anche qui meno di un terzo del fabbisogno ideale: e troppo cari.

Il governo e la politica ne hanno di lavoro da fare. E sarebbe dunque importante che questa materia non finisse nel tritacarne delle bandiere identitarie e dei pretesti per litigare, che ahimè sembrano la principale occupazione dei partiti (chi più chi meno), ma vedesse uno sforzo di convergenza e di coesione. Per fare riforme e progressi occorrono stabilità e continuità, anche quando mutassero le maggioranze: è una cultura politica da ricreare, e che abbiamo fortunatamente presente, per fare un esempio, almeno in misura significativa, nelle amministrazioni di Milano, da Albertini in poi (e infatti la città ha mutato in meglio il proprio volto).

Si può ancora riproporre, a questo punto, la domanda: basterà?

Quello che è certo, è che bisogna interrogarsi sulle origini della denatalità. Tenendo presente due caratteristiche essenziali: che essa interessa, seppure in maniera diversa, tutti i Paesi europei e che viene da lontano. Per stare all’Italia, dopo i livelli record di nascite col boom economico negli anni 60 (quasi 3 figli per mamma), è stato un continuo calo, un po’ frenato nei primi anni duemila grazie soprattutto alle immigrate, e poi accelerato dalla crisi del 2008 a tutt’oggi. Il calo, insomma, è iniziato dalla metà degli anni 70, e qui ognuno può riflettere su cosa sia successo o deflagrato da allora sul piano della mentalità e del costume prevalente.

L’esito odierno? Forse la parola chiave è “paura”: “C’è una crisi delle relazioni si investe sempre meno su questo fronte. Viviamo in una società che ha paura di mettersi in gioco… Diciamo che c’è meno educazione sentimentale, oggi le persone cercano sempre più affetto senza rischio…”. Non è l’omelia di un prete vintage, è il parere di un economista, Leonardo Becchetti, in una recente intervista a formiche.net. “Il problema è il mix micidiale di cause. Da una parte non si vuole più investire nella relazione stabile, ci cerca affetto a basso costo, dall’altra c’è l’aspetto economico del lavoro che non c’è e se c’è è precario e che riguarda di più chi i figli ne vorrebbe ma non può perché non ha un reddito sufficiente”.

La politica? Può arrivare al livello di far sentire alle coppie italiane di non essere abbandonate a se stesse nella scelta e nell’impegno di tirar su un figlio. Ma non può arrivare fino al cuore della questione.  Ci arriva solo una cultura e una mentalità nuova, quale solamente può innescare la testimonianza di affetti, maternità e paternità, famiglie in cui non vince la paura, ma la speranza. Le si riconosce da un segno facilissimo: la letizia. Perché, come dice Péguy, “per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ricevuto una grande grazia”.

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