Il commissariamento dell’Anpal – annunciato dal ministero del Welfare – non certifica il fallimento di una strategia, ma il contrario: segna la fine del tentativo di cancellare una lunga stagione riformista, volta a rimodellare il mercato del lavoro italiano in coerenza con la progressiva integrazione del sistema-Paese nell’Ue e nella globalità.
Il tentativo – antistorico prima che antipolitico – è stato avviato in modo esemplare nei primi giorni della legislatura in corso: quando l’allora ministro dello Sviluppo e del Welfare, Luigi Di Maio, ha varato il cosiddetto “decreto dignità”. Tre anni fa l’obiettivo di Di Maio – vicepremier e leader di M5S, fresco vincitore al voto – era evidente, dichiarato: neutralizzare e rovesciare il Jobs Act, la più importante riforma realizzata dalla precedente maggioranza di centro-sinistra.
Nel mirino è finito un intero disegno di lungo periodo, inizialmente concepito da Tiziano Treu e quindi perfezionato in misura decisiva da Marco Biagi (infine col sacrificio della vita). Il mondo del lavoro in Italia doveva accettare le sfide del mercato: anzitutto quelle poste dall’innovazione tecnologica e professionale e dallo sviluppo impetuoso di un’imprenditorialità diffusa. Tutti – il Governo, le parti sociali ma anche nuovi soggetti come le Regioni e le agenzie per il lavoro – si dovevano sentire impegnati a uno sforzo di futuro, che rivitalizzasse la “civiltà del lavoro” accumulata nel dopoguerra.. Il varo del Jobs Act, nel 2016, aveva sancito l’impegno di tutti: a creare più lavoro, nuovo lavoro, miglior lavoro. Per tutti in Italia: anzitutto per i giovani disoccupati, per tutti i precari, per gli immigrati accolti.
La messa in pausa delle politiche attive e la restaurazione del vecchio collocamento pubblico (solo riverniciato dai “navigator”) ha dunque connotato una lunga azione di “controriforma”, che però non è approdata a nulla: salvo confermare la validità della strategia contrastata e abbandonata troppo presto, benché i primi risultati già si vedessero. Ripartire dal Jobs Act diventa dunque logico e imperativo: soprattutto ora che l’exit dalla pandemia pone la ricostruzione del lavoro come principale emergenza socioeconomica. E una parte del Paese si era abituata già prima del Covid a vivere di sussidi (quelli del reddito di cittadinanza) invece che di lavoro, di ricerca attiva di un lavoro, di preparazione al lavoro.
Forse non c’è bisogno che il Governo ufficializzi il “ripristino” del Jobs Act. Sono già incoraggianti le misure di “rioccupazione” in cantiere per la fase cruciale di superamento del blocco dei licenziamenti: la politica di sgravi fiscali e contributivi ricorda l’ambiente di incentivi che aveva accompagnato il varo del Jobs Act. Né sono passate inosservate le prese di posizione di un leader sindacale come Maurizio Landini: “Vogliamo anni di riforme, non difenderemo l’esistente, il Paese deve cambiare”. A fine 2014 la Cgil aveva portato un milione di persone a Roma contro la riforma. Chissà quante di quelle non hanno mai trovato un lavoro con i “navigator”, oppure hanno perso il posto con la pandemia e si ritrovano oggi a manifestare fianco a fianco con ristoratori, negozianti e partite Iva.
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