Ha destato scalpore la decisione del Governo francese di cambiare il vertice del più grande museo del mondo, il Louvre. Il direttore uscente, lo spagnolo Jean-Luc Martinez, si attendeva la riconferma per il terzo mandato, anche in virtù dei numeri record che hanno caratterizzato la sua gestione: prima del Covid il Louvre era stabilmente sopra i 10 milioni di visitatori annui. Martinez ha puntato sempre su politiche di marketing a volte anche molto spregiudicate, come quando ha invitato Beyoncé e Jay-Z a girare un videoclip davanti alla Gioconda. È stato anche accusato di una svendita del marchio con l’operazione dell’apertura del Louvre ad Abu Dhabi, operazione che oltretutto secondo la Corte dei conti francese non avrebbe portato le risorse preventivate. Ora al suo posto arriva una donna, Laurence des Cars, fino a oggi alla testa di un altro grande museo parigino, il Musée d’Orsay. 

In sostanza Macron e la ministra della Cultura hanno pensato che il futuro del Louvre non sia quello di essere una macchina “da numeri”, ma che ci sia la necessità di ridisegnare il museo, il suo pubblico e le sue funzioni. Questo accade a Parigi, ma il Covid non è stato certo un problema solo francese e quindi è logico pensare che la questione tocchi tutti i musei, in particolare quelli grandi.

Il Louvre è il prototipo del museo centralizzatore e “totalitario”: nei giorni scorsi sui siti sono apparse le foto dei primi visitatori che dopo oltre sei mesi hanno potuto tornare a vedere la Gioconda; alle loro spalle si vedevano due capolavori che Napoleone aveva trafugato dall’Italia, l’Incoronazione di spine di Tiziano sottratta a Santa Maria delle Grazie a Milano, e Le nozze di Cana di Veronese, portata via da Venezia. Tra le grandi questioni che la nuova direttrice dovrà affrontare c’è ad esempio la richiesta di restituzione da parte di Paesi poveri, spesso ex colonie, di molte opere prelevate e portate a patrimonio del museo-totem. Lo stesso Martinez, direttore uscente, aveva confessato di essere stato colpito durante i suoi viaggi all’estero, dal numero di volte in cui il Louvre veniva accusato di detenere collezioni saccheggiate. 

I grandi musei negli ultimi decenni sono stati sottoposti alla pressione di una massificazione a servizio della grande industria turistica. Erano chiamati a continue prove muscolari, a fare grandi numeri per legittimare la loro funzione, senza preoccuparsi di come quei numeri svuotassero la portata culturale e civile dei musei stessi. Hanno favorito una fruizione dl tutto “consumistica” delle opere, abdicando a quella funzione formativa ed educativa che è la sola che ne legittima l’esistenza (e anche il costo economico che pesa sulla comunità). La svolta del Louvre è forse un primo segnale di ripensamento. Significativamente la nuova direttrice ha messo tra le sue priorità quella di dare al museo una maggiore dimensione di prossimità. Ha parlato della necessità di aprire ai giovani, in particolare ai giovani di Parigi che sono stati “espropriati”, perché l’occupazione consumistica del museo ne ha fatto una realtà a loro del tutto estranea. 

Certamente non è usando la sirena di Chiara Ferragni che si potrà vincere questa distanza e questa diffidenza, ma immaginando un nuovo approccio alle opere, che le faccia dialogare con il presente e con i suoi linguaggi. 

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