Scuola, aprirsi all’esperienza non è classismo

Le competenze non cognitive sono collegate ai risultati scolastici e sono importanti nel processo di apprendimento dei nostri ragazzi

L’articolo di Ernesto Galli della Loggia apparso sul Corriere della Sera di mercoledì dà l’opportunità di approfondire alcuni aspetti che riguardano il senso del fare scuola. Alla luce dei rapidi e radicali cambiamenti in atto, quale funzione deve assolvere il sistema educativo-formativo? Con quali metodologie di insegnamento e apprendimento? E quali strumenti deve utilizzare per verificare se raggiunge le sue finalità?

Galli della Loggia, mettendo all’indice l’introduzione del “curriculum dello studente” all’esame di maturità e prendendo le distanze dall’attenzione che la scuola sta dando alle competenze non cognitive nel processo di apprendimento, motiva il suo rifiuto con il rischio di una scuola piegata alle esigenze del mondo produttivo e violenta nella pretesa di valutare non solo cosa sanno, ma anche “chi sono” gli studenti.

Il “curriculum dello studente”, secondo l’editorialista del Corriere, sarebbe uno strumento classista che valorizzerebbe i ragazzi che hanno maggiori possibilità di frequentare attività extrascolastiche, provenendo da famiglie più abbienti. Ci limitiamo a osservare che, secondo le indicazioni del Ministero, non si tratta di uno strumento di valutazione, ma di condivisione delle esperienze e degli interessi dei ragazzi, che possono essere valorizzate nel corso del colloquio d’esame. A noi pare che questo strumento, correttamente, consideri l’apprendimento come una dimensione plurale, che avviene attraverso le esperienze scolastiche ed extrascolastiche, espressione anche della personalità degli studenti.

Lo sviluppo della persona nel suo insieme richiede conoscenze, capacità e competenze, e consentire a tutti di raggiungerle, come recita la Costituzione, indipendentemente dal genere, dall’etnia, dalla religione e dalla classe sociale è lo scopo della scuola e la miglior risposta anche a qualunque trasformazione del mondo economico, produttivo e sociale. Prima o poi, i giovani dovranno pur andare a lavorare, com’è loro diritto e non solo per favorire lo sviluppo economico. Questo non significa certo asservire la scuola al mondo produttivo, ma dare ai ragazzi gli strumenti per “imparare a imparare”, per conoscere il mondo in cui dovranno vivere, operare e far fronte a trasformazioni rapide, radicali e forse oggi non prevedibili, continuando a crescere.

Per fare questo non bastano le competenze tecniche, come hanno riconosciuto perfino gli esperti dell’OCSE-PISA (il programma internazionale per la valutazione delle competenze degli studenti), avviando uno studio su quelli che chiamano “socio emotional skills”. Serve invece una solida base culturale, un nuovo umanesimo che richiede però un sicuro possesso di quello che un tempo si chiamava “leggere, scrivere e far di conto”, e che oggi andrebbe integrato dalle competenze linguistiche e digitali. Chi queste competenze non le possiede, è fuori gioco, ma la scuola si guarda bene dal segnalarglielo: ed è drammatico che i dati dell’OCSE-PIAAC (il programma internazionale per la valutazione delle competenze degli adulti) dicano che in Italia un adulto su tre è un analfabeta funzionale, cioè non capisce ciò che legge, ammesso che legga, e non è in grado di esprimere ciò che pensa, benché nella quasi totalità dei casi sia andato a scuola per otto anni, e a volte anche di più.

La soluzione non può essere quella di aumentare il carico di nozioni (da valutare magari con dei test a crocetta). L’insegnamento non può essere ridotto solo a questo aspetto, fondamentale ma non esclusivo, che lo ridurrebbe oltretutto a logiche efficientistiche e aziendalistiche.

Chiunque insegni sa quanto sia alto il rischio di “prendere” solo una parte della persona (la sua capacità di accumulare informazioni, ad esempio) e definirla in base a un rendimento standardizzato, un voto. Ma proprio perché stiamo parlando di giovani in età evolutiva e non di adulti in formazione aziendale, occorre dare loro tutti gli strumenti necessari per imparare e crescere, strumenti che sono, ripetiamo, sia cognitivi che non cognitivi.

Pare di cogliere nelle parole di Galli Della Loggia una diffidenza su chi prende in considerazione i tratti di personalità come componente fondamentale del processo di apprendimento: ma è immediatamente evidente a chiunque abbia vissuto una situazione educativa, da una parte o dall’altra della cattedra, nella scuola primaria o nell’università, che questi elementi, pur difficili da definire e da osservare, influenzano pesantemente la riuscita. Il ragazzino timido, che stenta a legare con gli altri, finisce con il prendere voti più bassi del compagno di banco che sa magari meno di lui, ma è estroverso e ottimista.

Non ci pare proprio che introdurre nel dialogo fra docenti e studenti (NON nel voto) un confronto sugli interessi e le esperienze sia da considerare come “scuola di classe”. Anche perché – siamo onesti – le famiglie con più risorse troveranno comunque modalità alternative per arricchire la formazione culturale dei loro figli.

Proprio in quest’anno, con la diffusione della DAD ci siamo accorti di quanto questi fattori siano determinanti. Pensiamo alla capacità di prendere iniziativa, di pensare per problemi (cioè di far domande, essere curiosi), alla flessibilità, alla motivazione e a quale impatto hanno sull’apprendimento. In un recente studio, già citato su queste pagine (“Viaggio nelle character skills. Persone, relazioni, valori”, ed. Il Mulino), si è cercato di attribuire un punteggio ad alcune capacità non cognitive attraverso dei questionari di autovalutazione e si è messo in correlazione questo risultato con il punteggio Invalsi che considera l’apprendimento delle materie curriculari.

È emerso ad esempio che, per la stabilità interiore (coscienziosità e apertura all’esperienza), all’incremento di un punto corrisponde un aumento di 12 punti sul punteggio Invalsi; all’incremento di un punto della stabilità emotiva corrisponde un aumento di 3 volte sul voto Invalsi; di contro, all’incremento di un punto del “locus of control” (non sentirsi responsabili dei propri risultati) corrisponde un aumento negativo di 5 volte. Inoltre, un’impostazione didattica che stimoli l’iniziativa e la creatività può portare a un incremento fino a 4 punti.

Lo studio rileva altresì che programmi educativi volti specificamente a migliorare le abilità non cognitive hanno effetti su stabilità emotiva e relazionale, nonché su ottimismo e autoefficacia.

Non solo: esperienze analoghe fatte in altre scuole o in centri di formazione professionale (citiamo “Piazza dei Mestieri”, dove la sperimentazione è in atto da più tempo) mostrano che il miglioramento è maggiore, e inaspettato, per i ragazzi che secondo i normali parametri stanno nella parte bassa della classifica.

Molte ricerche, non solo quelle che abbiamo citato, forniscono elementi di conferma sia del fatto che le competenze non cognitive sono collegate ai risultati scolastici, sia del fatto che la scuola può favorire il loro sviluppo.

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