Quello che il Pil non può misurare

Amartya Sen ha ricevuto quest'anno uno dei premi Principessa delle Asturie. L'economista ha molto da insegnarci in questa fase post-pandemica

C’era una volta un Paese molto grande, in realtà era quasi un continente. Questo Paese così grande non era ancora indipendente dal Regno Unito. Lì nacque un bambino bengalese cui diedero il nome di Amartya Kumar, poi conosciuto come Amartya Sen. Entrò presto nell’Università di Cambridge dove eccelse, visse le tragedie della Seconda guerra mondiale e la terribile divisione dell’India.

Tuttavia, quello che forse lo segnò maggiormente fu l’essere stato testimone nella sua infanzia di una carestia che colpì tre milioni di persone. Voleva sapere le cause e le conseguenze di ciò che aveva visto e fu questa curiosità che lo portò a scoprire che la fame non era solo un problema economico, ma aveva a che fare con la mancanza di accesso ai beni di sostentamento, alla mancanza di educazione e di copertura sanitaria, in definitiva alla mancanza di opportunità.   

A Sen, già premio Nobel per l’economia nel 1998, è stato attribuito quest’anno uno dei premi Principessa delle Asturie, tra i premi più prestigiosi della Spagna. È stato un riconoscimento opportuno, ora che siamo tornati a soffrire di una crisi e che la parola libertà torna a riaffermarsi, dopo le molte restrizioni che abbiamo subito.

Le teorie di Sen sono state fondamentali per aiutare a concepire lo sviluppo non solo come una questione economica. Infatti, è uno degli autori dell’Indice di sviluppo umano (Isu), che da trent’anni è utilizzato dalle Nazioni Unite. L’Isu tiene conto, oltre al Pil, di altri fattori come la speranza di vita o la qualità dell’educazione.

Di fronte alle semplificazioni che continuano a circolare, e che ritornano ogni volta che subiamo una recessione, uno dei contributi più interessanti di Sen si riferisce ai motivi in base ai quali si prendono le decisioni. Esse non sono fondate solo su ragioni egoistiche, sul desiderio di raggiungere il benessere privato: questo non è l’unico motore economico, che genera mercati perfetti e prosperità grazie a una mano invisibile. Ci sono decisioni che non sono guidate da interessi individuali, esistono anche beni comuni. L’egoismo universale non è una premessa necessaria per costituire e organizzare una vita comune razionale. Dopo più di un anno di pandemia, di fronte all’evidenza che il nazionalismo dei vaccini non è sufficiente per ricominciare di nuovo, forse sarebbe opportuno ricordare cosa ci muove.

In questo momento, con un budget come quello presentato da Biden, con il maggior debito pubblico della storia e con il Next Generation Eu avviato, è difficile non vedere l’importanza dello Stato e di strutture sovranazionali come l’Ue per uscire dal buco in cui ci ha cacciato la pandemia. Ma questo intervento complementare al mercato può convivere con una mentalità individualista.

Sen aiuta a superare l’economicismo per capire quali fattori costituiscono una “società buona”, una società sviluppata. Aiuta anche a superare una certa concezione troppo unilaterale della libertà, intesa semplicemente come libertà negativa, come il rispetto da parte dello Stato dei diritti fondamentali. Questa libertà è senza dubbio fondamentale e non deve essere dimenticata, dopo che negli ultimi mesi c’è stato chi ha difeso il modello cinese o certe formule asiatiche poco democratiche. Sen mette in chiaro che un regime che sopprime i diritti politici e umani non promuove lo sviluppo economico. Un giudizio essenziale, ora che si espande la Nuova Via della Seta o che alcuni vedono un buon alleato nella Russia.

Tuttavia, la libertà reale, non astratta, ha una dimensione positiva, è legata alle opportunità reali. La libertà è vincolata alle capacità effettive di cui dispongono le persone per raggiungere i loro obiettivi, per ottenere una vita buona. Se usciremo dalla crisi con meno opportunità di lavoro per i giovani, con contratti peggiori, con una grande quantità di disoccupati a lungo termine che non hanno potuto ricollocarsi nell’economia digitale, saremo meno liberi. Libertà e uguaglianza di opportunità sono indissolubilmente unite.

Quando la ripresa economica si sarà concretizzata, torneremo a contare sui livelli di reddito medio o di produzione dei quali godevamo prima che arrivasse il virus. Ma dovremo anche riconquistare, e se possibile migliorare, le opportunità reali che il mondo e l’Europa avevano prima della pandemia per parlare di mercati realmente efficienti. E queste opportunità dipendono da beni pubblici come la salute, l’educazione o l’ambiente. Il miglioramento della vita sociale non può essere misurato solo in termini di Pil. 

La lotta contro lo statalismo, sempre necessaria, non può a questo punto intendersi come la richiesta che ci sia meno Stato.  Piuttosto bisognerebbe esigere che lo Stato, nel suo necessario intervento per favorire l’uguaglianza di opportunità, sia efficiente, che non sia confessionale – che non imponga un modo di vedere le cose – e che sia sussidiario di chi facilità l’equità.

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