La fase di ripresa economica che si sta manifestando con forza dai primi dati disponibili sta portando alla luce il lato oscuro delle scelte di politica economica messe in piedi dai governi precedenti per sostenere il reddito di chi, almeno formalmente, si trova in difficoltà economica.

Il reddito di cittadinanza, partito con l’idea di redistribuire la ricchezza anche ai ceti più deboli, è velocemente deragliato in un meccanismo di diffusione a pioggia di risorse senza controlli. La pandemia ha giustificato questa scelta ed ha, anzi, reso evidente che nei momenti di crisi, personale o sociale, un sostegno economico è necessario per tenere assieme la società. Senza uno strumento di questo genere il rischio di scavare un solco profondo tra chi lavora e chi no è concreto ed immanente, tenuto conto che i periodi di ricollocazione dei disoccupati sono lunghi e, a volte, l’espulsione dal ciclo produttivo è definitiva. Soprattuto nel Mezzogiorno e soprattuto per chi, anagraficamente o per formazione, non ha requisiti idonei a reimpiegarsi.

La massa di denaro speso ha avuto una giustificazione forte nello stato di necessità che la pandemia ha creato, ma ora che le attività ripartono, anche nel Mezzogiorno, e che si riavvia la macchina del turismo sta emergendo un effetto collaterale che bisogna approfondire per progettare al meglio come questo strumento debba essere declinato in futuro.

Molta parte dei percettori, infatti, complice la diffusione dei social (TikToK in particolare) tra i boomers non resiste a mostrare come questa manna sia stata utilizzata. Tra bottiglie di champagne comprate con la mitica prepagata data dallo Stato, al cash recuperato grazie a qualche negoziante compiacente e reinvestito in piccoli oggetti di lusso. Molti ci tengono a far sapere, via social, che le somme avute tramite il reddito non sono che companatico in eccesso e che il pane a casa lo porta un familiare, o più di uno, che lavora rigorosamente a nero. A testimonianza, si riprendono in sgargianti cucine nel mentre ringraziano per regalo avuto.

Altri, più timorosi, provando ad abbozzare un ragionamento di merito. Accanto al reddito di cittadinanza, con il lavoro che viene mal pagato, si mette assieme una somma per vivere dignitosamente, quindi, sostiene chi ne usufruisce senza farsene uno vanto da sberleffo, toglierlo sarebbe un problema visto che in tante famiglie ha assicurato un benessere ed una serenità mia visti prima.

Anche i sindacati hanno iniziato a comprendere che il tema influisce direttamente sui lavoratori. Non solo perché si crea una concorrenza tra salario e reddito garantito, ma anche perché rimanere nel perimetro dell’indigenza formale, ovvero solo dichiarata tramite i moduli nei Caf, garantisce esenzioni e benefici che non toccano ad un operaio specializzato. Il tutto genera una contrapposizione tra chi il reddito lo percepisce e se ne avvantaggia ed il vicino di casa che con molte ore di lavoro si ritrova ad avere un tenore di vita in proporzione inferiore a chi risulta disoccupato.

Il Mezzogiorno vive questa contraddizione quotidianamente. Complice i costi della vita inferiori rispetto al Nord, le somme erogate sono più che sufficienti, unite a qualche consegna di pizze tramite le piattaforme della Gig economy, a dare un benessere che non trova riscontro nella fase pre pandemica.

Cosa fare, quindi, di questa esperienza, come gestirla per il futuro è il tema che Draghi si trova ad affrontare. Non solo per offrire una soluzione macroeconomica che riesca a far emergere base imponibile ed eviti sprechi, ma anche per mettere nella giusta prospettiva il confronto tra chi lavora e paga le tasse e chi approfitta a mani basse senza conseguenze.

Le soluzioni emerse sono due, nella sostanza. O si consente di cumulare reddito di cittadinanza e lavoro in modo da offrire un’uscita dall’assistenzialismo, offrendo una sorta di metadone finanziario a chi ormai non riesce a farne a meno; o si elimina la misura imponendo delle maglie molto strette e controlli serrati su chi ne approfitta.

La prima soluzione appare di maggiore buon senso, perché consente un percorso meno traumatico e tiene buono anche un pezzo di elettorato che potrebbe essere determinante per alcune forze politiche. La seconda soluzione, in sostanza la fine immediata delle erogazioni a pioggia, rischia di travolgere pezzi di società che sono in oggettiva difficoltà e di agevolare chi specula sul lavoro irregolare e che oggi, a bassi salari, non è appetibile da chi ha un reddito, seppur minimo, disponibile.

Ma una soluzione diversa è quella di intervenire sui salari e dare più reddito disponibile ai lavoratori in modo da spingere chi si “accomoda” sul reddito di cittadinanza a darsi da fare per trovare un’occupazione pagata meglio. Al contempo aprire una stagione di riqualificazione e formazione collettiva di chi percepisce il reddito unita ad un’efficace repressione nel Mezzogiorno del lavoro irregolare.

In ogni caso, se non si interviene, il rischio è quello di far passare per fessi chi ha una busta paga ed un lavoro regolare rispetto a chi si maschera dietro il reddito di cittadinanza e incrementa il proprio tenore di vita approfittando di beni e servizi che non paga neppure in minima parte.

È quindi una battaglia “morale” oltre che economica che deve essere intrapresa per portare un minimo di etica del lavoro e di rispetto delle regole di cui il Mezzogiorno ha bisogno.

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