Fa molto discutere la scarcerazione di Giovanni Brusca, boss di Cosa nostra che premette il tasto del telecomando che fece esplodere l’auto in cui viaggiava Giovanni Falcone nel 1992 e che diede l’ordine di sciogliere nell’acido il tredicenne figlio del pentito Di Matteo. Queste efferatezze, accompagnate da almeno un altro centinaio di crimini, orientano l’opinione pubblica verso una reazione scandalizzata per il fine pena di un malavitoso che ha collaborato con la giustizia ma non ha mai mostrato segni di pentimento per il male compiuto. Se ne fa portavoce, tra gli altri, la vedova Schifani – agente della scorta rimasto ucciso insieme a Falcone – che denuncia una ferita aperta e un comportamento inaccettabile da parte dello Stato. Come si può darle torto? Come si può negare l’evidente sproporzione tra il male compiuto da quell’uomo e la pena prima assegnata e poi, a seguito della collaborazione con la magistratura inquirente, ridimensionata?
Eppure chi accostasse con tanta emotività questi fatti rischierebbe di perdersi per strada alcune evidenze che contribuiscono a gettare una luce diversa sull’intera faccenda.
In primis riguardo al concetto di giustizia. Spiace ricordarlo, ma quella verso Brusca non è la giustizia della famiglia Falcone o Schifani, quella verso Brusca è la giustizia di un’intera comunità, quella dello Stato italiano. È chiaro che il dolore di una barbarie come quella commessa nel maggio del ’92 non troverà mai giustizia, ma la macchina dello Stato si incarica non di incarnare le legittime aspirazioni delle famiglie delle vittime, bensì il complesso dei rapporti sociali, civili e umani feriti da un atto criminale compiuto nel seno di una comunità.
Lo Stato non vendica, ma contempla, non punisce, ma ristabilisce. La nostra costituzione è chiara a tal proposito: le pene esistono non per colmare una infinita sete di giustizia, ma per ricucire, rieducare, reintegrare le libertà strappate dai gesti degli uomini. Le libertà delle famiglie delle vittime e di quelle dei loro carnefici.
Questo introduce il secondo elemento di riflessione: venticinque anni sono un tempo lungo, un tempo in cui noi non sappiamo che cosa possa accadere nel mistero di un uomo cattivo. La persona che ha premuto quel telecomando esiste ancora? Chi ha dato ordini terribili ha il volto di chi oggi esce dal carcere? Non lo sappiamo, non è cosa che ci è stata detta, riferita. Il male lascia sempre tracce abbondanti in chi lo compie, ma la cura di una comunità spalanca le porte a rivolgimenti profondi, inauditi, che rendono il male fatto non più il punto identificativo della persona, ma solo un tratto – molte volte parziale – di una storia più ampia e più drammatica.
Certo, ultima considerazione, lo Stato quando compie un gesto offre dei messaggi, ma in questo caso il messaggio – voluto da Falcone stesso che mise appunto questo delicato sistema premiale per i collaboratori di giustizia – è che la pena finisce per tutti. Il fatto è che le sguaiate reazioni delle tifoserie contrapposte non solo rendono flebili le voci di chi avrebbe diritto di parlare – le famiglie delle vittime – ma trasformano la pena in un inferno.
Già, l’inferno… Agostino diceva che l’inferno è quel punto in cui la tua libertà si ferma per sempre. Inchiodata lì, destinata a rimanere avviluppata alla colpa, a identificarsi con essa. Ma l’inferno non è ciò che Dio ha pensato per l’uomo. Il Suo sogno, per ciascuno di noi, è il cammino, la strada. Per capirlo non serve molto. Serve solo amare la verità della vita, e le sue strade, più di se stessi. E di tutte le nostre presunte giustizie.
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