La speranza, Mancini e i Magnifici sette

La speranza deve pur sempre avere una faccia. Se no ci appare astratta. Dalla scuola a DonaCibo, e perfino nella Nazionale, queste facce ci sono

La speranza deve pur sempre avere una faccia. Se no ci appare astratta. Il vaccino, certo (almeno per chi non è No Vax). Ci speriamo: aiuta la speranza e che Dio ce lo conservi, ma non ha una faccia, e poi è una speranza moscia assai, anche ammesso che le varianti non ci freghino. Draghi, ecco Draghi, certo (per chi non è Travaglio e Il Fatto Quotidiano): è la faccia di chi fa quanto di meglio per riportare in linea di galleggiamento il Paese, e che Dio ce lo conservi: lui una faccia ce l’ha; gli manca la bacchetta magica.

In realtà cerchiamo una faccia che sia icona, simbolo e immagine della felicità che presentiamo di poter vivere e celebrare nell’appartenenza a un evento di popolo che ci affermi, ci faccia gustare appieno la rivincita sulla depressione da Covid. Insomma, un po’ tanto più dell’ombrellone della fila 17. Da qualche settimana, questa faccia è quella di Roberto Mancini, allenatore di successo della nazionale di calcio. Che infatti domina le più svariate pubblicità, dalla moda uomo alle Poste. Egli è l’italico vincente nell’unico fenomeno che nonostante tutto ancora accende l’orgoglio della patria appartenenza, che non si chiama sovranismo, ma calcio.

E se, Dio non voglia, prima o poi perdiamo? E se anche vinciamo? Passata la sbornia, è facile che ci venga da dire, come a Cesare Pavese quando vinse il Premio Strega: “Apoteosi! E con questo?”. Non subito, come lui: qualche giorno dopo, ma non di più.

E se invece la speranza fosse una gioia presente, e non una gioia futura che arriverà o non arriverà? La domanda mi riporta a rivisitare le facce che ho visto ultimamente. Nella mia quotidianità. Oh sì, ho visto anche facce di gioia e di speranza, luminose, adesso.

Per esempio quella di tantissimi ragazzini che hanno aderito al Donacibo, la raccolta in tante scuole di alimenti per i bisognosi, connessa a una proposta di educazione alla carità. In primavera, causa improvvisa chiusura per Covid delle scuole, erano saltate tutte le programmazioni. Il DonaCibo si è imprevedibilmente potuto svolgere, attraverso mille comprensibili difficoltà, per un’iniziativa dal basso di insegnanti, bidelli (ops, forse non si chiamano più così), famiglie. Ragazzi.

Le facce della speranza, in quella circostanza, erano quelle dei ragazzini sorridenti e felici di mettere negli scatoloni della raccolta, ai cancelli di ingresso delle scuole, il loro piccolo o grande dono. Un centinaio di loro, alunni delle elementari e delle medie di una scuola dell’hinterland milanese, hanno scritto su post-it la traccia del loro gioioso incremento di coscienza: “Mi rende felice aiutare gli altri”, “A me è piaciuto aiutare le altre persone anche con poco e renderle felici”, “Ho avuto l’opportunità di capire che io sono fortunata”, “Quando ho scritto sulle scatole pasta, riso, latte, mi sono immaginata le famiglie che li ricevevano”. La felicità nel dono e non nel possesso.

Già che siamo in tema di scuola. Un trentenne insegnante (precario) di Arte e Immagine nelle scuole medie ha ricevuto a fine anno scolastico (gran parte del quale in didattica a distanza) delle lettere dagli alunni, nelle quali si legge, tra l’altro: “Grazie per averci fatto riflettere e maturare, per i piccoli gesti, anche se all’apparenza insignificanti, che ogni giorno ci rivolge. Grazie per averci insegnato, oltre che la sua materia, come essere persone migliori nella nostra vita. Grazie a lei abbiamo imparato il significato della passione del lavoro che svolge. Oltre che un prof è stata sempre una persona su cui poter contare”.

Il bello è che dei ragazzi possano essere affascinati non da un figo (vuoto) da social, ma da una presenza che illumina il senso dell’umile quotidiana fatica.

Chi ricorda il leggendario film I magnifici sette? I ragazzini del villaggio dei poveri peones vessati dai bandidos mitizzano i sette castigamatti che per pura gratuità (straordinario!) li difendono con le armi a costo della loro vita. Ma quando uno dei marmocchi esalta i pistoleros mostrandosi deluso per i padri imbelli contadini non avvezzi alle armi, Bernardo (Charles Bronson), lo sculaccia e gli insegna con amorosa severità che i veri eroi sono (cito a senso) “non noi avventurieri, ma i vostri padri che si spaccano tutti i giorni la schiena per tirarvi su e darvi una vita e un futuro”. Tra parentesi: un po’ distratto da questa ramanzina, Bernardo si becca una pallottola fatale, e muore.

Ecco, conservo, e invito a conservare, queste facce nel cuore. C’è dentro il segno di qualcosa che vale.

E intanto, se è così, viva Mancini, viva l’Italia. Io penso che sarebbe d’accordo anche il povero Pavese.

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