Cos’è mancato alle primavere arabe

La democrazia può arrivare nei Paesi arabi? La domanda è molto sfidante nel momento in cui si celebrano i dieci anni delle Primavere arabe

Elezioni in Algeria. Il Fronte di Liberazione Nazionale vince, con un’astensione molto alta. Dall’altro lato del Mediterraneo, a Catania, un gruppo di giovani siciliani partecipa a un workshop sul futuro del giornalismo, organizzato dal quotidiano digitale Sicilian Post. Io prendo parte a un dibattito sul bilancio dei dieci anni delle primavere arabe e i giovani mi chiedono se credo che la democrazia arriverà nei Paesi arabi. Il Sicilian Post è una bella iniziativa costruita dalla base in una delle regioni più problematiche dell’Italia. Un’iniziativa nella quale alcuni maestri del giornalismo con ampia esperienza si sono coinvolti con giovani che vogliono costruire.

Arriverà la democrazia nei Paesi arabi? Non lo so, rispondo. In una piacevole notte vicino al Nilo, nell’Alto Egitto, poco dopo l’esplosione della primavera araba, un mio buon amico mi ha detto che gli occidentali hanno spesso troppa fretta. Il processo era iniziato, ma non sarebbe stato né rapido, né lineare.

Dieci anni dopo, abbiamo punti di vista più certi sull’origine delle proteste che iniziarono a Tunisi. Le contraddizioni degli Stati post-coloniali erano diventate particolarmente acute. Il calo delle nascite e la crescita dell’alfabetizzazione avevano dato origine a una nuova classe media, formata da giovani con un grado di istruzione elevato. Sono stati questi giovani i protagonisti delle proteste e sono loro che continuano a chiedere un cambiamento, che non è ancora arrivato.

Questo non significa che le primavere arabe siano fallite, piuttosto sono rimaste incomplete. È mancato il soggetto capace di rendere reale la trasformazione. Esploso l’entusiasmo nelle piazze, tutto sembrava possibile. Ora però sappiamo che i social network, che allora apparivano i promotori invincibili di un mondo nuovo, spesso creano una grande illusione. Un decennio dopo, i contenuti dei social nel mondo arabo, come in tutto il mondo, sono colonizzati dalle fake news, dalla polarizzazione e dalla spazzatura conflittuale gettata da poteri che combattono per conquistare l’attenzione degli utenti. 

La nuova classe media che manifestava nelle piazze non era coordinata, non aveva chiari leader e non aveva un programma per il giorno dopo. Di fatto, dopo aver estromesso Mubarak, non sapeva cosa fare e, appena resasi evidente la sua debolezza, i partiti islamisti, in Egitto i Fratelli Musulmani, si sono appropriati della primavera araba.

Questa è stata una delle tre “formule” nelle quali sono sfociate le primavere arabe. La formula dei partiti islamisti è sostanzialmente simile a quella di Erdogan in Turchia, sostenuta dal Qatar: la confessionalizzazione dello Stato al posto della laicità dei dittatori appoggiati dall’Occidente. L’arrivo dei Fratelli Musulmani in Egitto è stata un vaccino straordinario verso la possibilità che l’islamismo rispondesse al desiderio di maggiore democrazia.

I partiti islamisti hanno messo in chiaro fino a che punto gli occidentali si siano sbagliati nel pensare che la dimensione religiosa non avesse peso nelle primavere arabe. Nel Medio Oriente la questione di Dio è sempre presente, in un modo o nell’altro. I Fratelli Musulmani volevano incarnare una risposta al desiderio di cambiamento, proponendo una teologia politica islamica congelata. Prima che l’esercito prendesse il controllo del potere in Egitto, il progetto dei Fratelli Musulmani era già fallito, essendosi dimostrato incapace di creare un’architettura istituzionale accettabile per un Paese di quasi 100 milioni di abitanti.

L’altra formula di sbocco delle primavere arabe è stata il jihadismo. Il caso della Siria è l’esempio più evidente. In pochi mesi, le proteste del 2011 in favore di una maggiore libertà si trasformarono in un’opportunità di trionfo per quella forma di nichilismo violento che è stato il califfato del Daesh. La provocazione posta all’islam  è tuttora presente.

La terza formula ha a che vedere con una trasformazione in seno all’islam, che non è stata notata da molti in Occidente, in quanto non clamorosa. In Occidente, spesso aggrappati ai nostri schemi mentali, pensiamo sempre che la democrazia debba basarsi sull’universalità laica e laicista dei valori della Rivoluzione Francese. Non ci rendiamo conto che neppure in Francia questo modello è in questo momento applicabile. Colpisce il fatto che, nella nostra ignoranza, abbiamo salutato le primavere come l’espressione di una nuova sinistra laica in lotta contro il confessionalismo. Come già successo nell’invasione dell’Iraq nel 2003, nel 2011 abbiamo continuato a pensare che la democrazia potesse imporsi secondo le nostre formule, senza capire il sostrato antropologico dei Paesi a maggioranza musulmana

Per questo, poiché la democrazia dipende dall’antropologia che la sostiene, è importante che, negli ultimi anni, un certo islam si stia aprendo al concetto di cittadinanza. In questo ambito è stata decisiva la svolta di al-Azhar, la moschea del Cairo che funge da riferimento per il mondo sunnita. La Dichiarazione di Abu Dhabi, firmata nel 2019 da Al Tayeb, il grande imam di Al Azhar, e da papa Francesco implica un interessante progresso. Così come la posizione del Marocco.

Ci sarà democrazia nei Paesi arabi? Non si possono fare previsioni, ma se a un certo momento dovesse prendere piede un sistema più partecipativo, questo avrà a che fare con l’evoluzione dell’islam. Dipenderà dalla possibilità che l’esperienza religiosa si apra al valore della cittadinanza, riconoscendo concretamente l’uguaglianza dei diritti.

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