Il nostro bisogno di perdono

L'Italia sta ripartendo con slancio, ma neppure questo, in fondo, ci basta. Nel nostro fare invochiamo una misura diversa, infinita

La campagna vaccinale procede spedita, l’Istat prevede “una sostenuta crescita” del Pil italiano sia nel 2021 che nel 2022, le riforme (giustizia, Pa e non solo) sono in pista, il famoso Rt e i dati relativi alla diffusione dell’epidemia paiono essere tutti in calo. Si respira finalmente aria di ripartenza.

Lo ha sottolineato con pacata certezza il presidente Draghi nella sua recente visita in Emilia-Romagna. “Si percepisce sollievo, entusiasmo, una voglia di ricominciare e sprigionare le proprie energie produttive e imprenditoriali, la propria visione del mondo. È una cosa che dà conforto”. E il presidente Mattarella nel discorso del 2 giugno al Quirinale ricordava che oggi, come fu nel ’46, è “tempo di costruire il futuro”.

Dopo mesi di chiusure, di provvedimenti reiterati e spesso inefficaci, di imprenditori sempre più disperati, di vaccini bloccati, di curve pandemiche che non accennavano a dare tregua, di tante e tante persone provate dalla malattia, dopo tutto questo tempo che ha logorato energie economiche e affettive, finalmente tiriamo un sospiro di sollievo. Questo clima positivo fa bene al cuore, lo fa riaccendere. E ci fa capire che siamo fatti per il bene. Così come lo smarrimento e la solitudine dei mesi duri, se abbiamo avuto il coraggio di guardarli senza fuggire, ci hanno svelato la fragilità del nostro essere uomini, altrettanto il sollievo che si prova oggi documenta l’attesa di bene che ci costituisce.

Come scrive Cesare Pavese nel Mestiere di vivere, “Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. È lo stesso Pavese che anni prima, in alcuni versi di Lavorare stanca, sembra aver anticipato una risposta a queste domande: “Ti ride negli occhi la stranezza di un cielo che non è il tuo”. Siamo fatti di un cielo che non è il nostro, ma che ci definisce, quel cielo che rende il nostro cuore attesa e desiderio di bene.

Ma la ripartenza che sta venendo incontro alla nostra attesa è una ripartenza difficile. Giuseppe De Rita in una recente intervista ad Avvenire, paragonando il 2 giugno di oggi a quello del ’46, ha il coraggio di dire che “oggi tutto è più complesso”. E prosegue affermando “Si può costruire qualcosa se esiste un desiderio. Oggi la società non ha grandi desideri. C’è più egoismo” Sollecitato ulteriormente sul tema della rinascita, con decisione afferma che “lo sviluppo lo fanno le persone. Dietro ogni miracolo italiano ci sono le persone. Un obiettivo generale deve maturare dentro la testa di milioni di persone e non può essere la politica a fissare la meta”.

Certo! Non può essere la politica a ricordare agli uomini cosa attendono e cosa desiderano! “Quello che cerco l’ho nel cuore”, esclama l’Odisseo di Pavese nei Dialoghi con Leucò. È ciò che abbiamo nel cuore,  il desiderio, che può fissare anche la meta di cui parla DeRita, che può farci intravvedere il vantaggio umano di una vita vissuta non nell’individualismo e nell’egoismo.

Ma la realtà, proprio in questi giorni di ripartenza, non ci sta risparmiando l’esperienza di drammi, contraddizioni, violenze. I morti della funivia del Mottarone, il ricordo delle truci stragi di mafia che la liberazione di Giovanni Brusca ci ha riproposto, l’inarrestabile sequenza di violenze con la quale si continua ad uccidere e ad uccidersi, ci fanno avvertire un ultimo struggente bisogno. È come se il cuore invocasse non solo legittima giustizia, ma anche qualcosa d’altro. L’esigenza di una misura diversa anche davanti al male. Un bisogno di novità, il desiderio di incontrare qualcuno che abbia subìto il male e che dica “perdono”. C’è stato un uomo duemila anni fa che lo ha detto e da allora tanti lo hanno imitato. Uomini così indicano la strada di uno sviluppo all’altezza del desiderio.

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