Pasolini e il coraggio di dire io

Ne "La Divina Mimesis" (1975) Pasolini riscrive, a modo suo, la Commedia dantesca. Casa Testori parte dall'opera di PPP per progettare la mostra del Meeting

“Intorno ai 40 anni mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita”. Inizia così uno dei libri più personali e dolorosi di Pier Paolo Pasolini. È La Divina Mimesis, dove Divina è riferimento alla Commedia dantesca e Mimesis allude al tentativo di Pasolini di fare un percorso come il grande poeta, a partire dalla propria “selva oscura”.

È un piccolo libro autobiografico, pubblicato poco prima di morire, ma in realtà nato molti anni prima, quando Pasolini aveva avvertito la necessità di documentare la crisi che lo aveva attanagliato alla metà degli anni 60, quando sentì svanire la vitalità delle borgate e trionfare il modello della borghesia neoconsumista (“un mondo di acquirenti”, lo definisce).

Avendo il privilegio di progettare, con la squadra di Casa Testori, una mostra dedicata a Pasolini (di cui l’anno prossimo ricorrono i 100 anni dalla nascita: proprio come don Giussani, che indicava in Pasolini “l’unico intellettuale cattolico, l’unico”), questo piccolo libro è stato un riferimento prezioso, quasi imprescindibile: se il titolo del Meeting è “Il coraggio di dire io”, qui Pasolini dà prova di coraggio ad oltranza.

Lo scrittore immagina di essere guidato in questo viaggio da un Virgilio che altri non è che il se stesso nell’età felice, “poeta divenuto poeta chissà come, chissà in che angolo provinciale”. È il Pasolini dell’età dell’innocenza che prova a condurre nei gironi del nuovo inferno il Pasolini venuto dopo il passaggio cruciale degli anni 60, quello del “vedere tutto nero intorno”, del “percepire le cose improvvisamente monche, come moncherini o spettri pieni di una gelida malinconia”. È uno scrittore che pur attanagliato dal dolore, conserva la lucidità e sincerità per analizzare la propria condizione: “Solo io, segnato da un confine: sproporzione, incredibile, tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo, così grande, inesauribile anche nella nostalgia”.

Ciò che detta la necessità di questo libro, concepito come documento interiore, sono uno struggimento e un’aspirazione. Lo struggimento per il naufragio di quella baldanza, condivisa con il mondo che un tempo lo circondava (“il senso di un addio dato alle cose prima ancora di averle conosciute”, scrive); e l’aspirazione a trovare qualcuno o qualcosa che rompesse il guscio del mondo cupo in cui ora si sentiva ostaggio, e anche rifiutato. “‘Oh Pasolini!’ sentii chiamarmi… con gentilezza speciale – quella che allude ad un rapporto particolare, da qualche tempo interrotto e ora, appunto, in quel momento ripreso. Un’alleanza taciuta, e quasi un po’ clandestina. Mi era ben noto il tono di dolce sorpresa di quel richiamo. Che, dopo avermi escluso, mi recupera in un fondo d’occhio”. Allusione ad una possibilità intravista, ad uno spiraglio imprevisto, ad una voce umana sentita in un preciso momento, “molto dolce, autenticamente dolce”.

Non è un libro a lieto fine La Divina Mimesis, come non è stata certo a lieto fine la vita di Pasolini. Non c’è nel libro un’uscita dall’Inferno. Ma dentro questa selva oscura, davvero a tratti troppo oscura, si sente battere il cuore ferito di un poeta, che “come un fiore, nient’altro che un fiore non coltivato”, obbedisce “alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento”.

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