Italia, imparare dal Mancho

L'Italia batte l'Inghilterra ai rigori e si laurea campione d'Europa grazie a una squadra vincente, quella di Mancini, che offre una lezione al paese

Attacco a scrivere mentre, neanche un secondo dopo il fischio finale degli Europei 2020, anche in un paesotto di provincia scoppiettano i petardi della Grande Gioia. Ero pronto a dire bene della nostra nazionale di calcio anche se (lo dico perché ormai non c’è motivo di fare o gesti più o meno costumati di scongiuro) anche se non ce l’avesse fatta a piegare gli inglesi. Non perché “l’importante non è vincere, ma partecipare”: immensa ipocrisia del moralismo più o meno vagamente massonico. Si gioca per vincere.  Abbiamo vinto, e godiamocela senza infingimenti.

Dài, lo ricordiamo tutti come eravamo messi tre anni fa: niente accesso ai mondiali; ce lo siamo fatti sbarrare dagli armadioni dell’Ikea svedese. Figura barbina, ma non solo per errori di calcio. Da Ventura a Mancini non è cambiata solo la tattica calcistica. È cambiato un mondo. Ora la Nazionale, questo è quello che avrei scritto anche se non avessimo toccato il settimo cielo alla roulette dei rigori, rappresenta per il popolo italiano – se qualcuno l’aiuta a capire – un modello di virtù che il Paese ha bisogno di riscoprire se vuole davvero riprendersi.

Queste virtù si possono dire in quattro parole: autorevolezza, unità, umanità, piacere.

Io non lo so com’è che ha fatto, ma il Mancho si è posto ed è stato recepito come un’autorevolezza reale. Stimato dai calciatori. Ventura non lo era neanche un po’. La stima è per la competenza e l’esperienza, indiscutibili. Ma anche per il fatto che ognuno del gruppo si è sentito guardato, considerato, valorizzato. Senza leader autorevole non si crea squadra. Non per il fatto di avere potere, o di essere “classe dirigente” si mette insieme un popolo, ma perché si valorizza ciascuno additando uno scopo che ha anche una dimensione ideale.

L’unità si è vista. E credo che sia nata certo da una volontà di coesione del gruppo, ma anche da una leadership di spessore reale, percepita come amica valorizzatrice. Autorità, ricordiamo, deriva da augere, cioè aumentare, far crescere. Diciamoci la verità: la nostra Nazionale è fatta di campioni, di varia caratura, non di fuoriclasse. Non c’è il fenomeno. C’è la squadra. I vecchi senatori si sono visti sgobbare alla pari delle più giovani reclute, abolendo l’italianissimo insopportabile “lei non sa chi sono io”.

Rispetto alla sventurata fuoriuscita dai mondiali di tre anni fa, si è visto un collettivo “tutti per uno, uno per tutti” al posto di quella brigata di individualisti presuntuosi messi sotto appunto dagli armadioni scandinavi.

C’è di mezzo, terza cosa, un fattore umano. Sto a quel che si è visto, non faccio dietrologie e sospettologia. Si sono visto abbracci, tra noi e anche con gli avversari; si è vista una implicazione di sé, del proprio io, con lo scopo del “noi”.

Infine si è visto il piacere. Molti commentatori hanno parlato anche di “bellezza”, addirittura “omerica”, con esagerata e stucchevole retorica tipica di chi corre in soccorso del vincitore. Un lavoro viene bene quando lo si fa con piacere: è il gusto del lavoro ben fatto, ed è vero che il risultato può essere bello.

Molti hanno scritto che con questi europei gli italiani si sono riconciliati con la Patria, per via dello spirito nazionale. Io non concordo. L’italiano gode e strombazza e spara mortaretti sentendosi coinvolto e immedesimato in un evento clamorosamente positivo, esplosivo e vincente. Questo è bello, non dico di no, ma passa in fretta, se non ci si va un po’ dentro con la consapevolezza.

E allora dico che autorità, unità, umanità, piacere, sono virtù da imparare, anche da un torneo di calcio, per affrontare i mesi e gli anni che ci attendono. Siamo un paese indietro di brutto per lavoro (tasso di occupazione) e per formazione. Non illudiamoci di uscirne solo con i soldi dell’Europa da spendere. Occorre un cambiamento di mentalità, una svolta antropologica. Nel lavoro bisogna passare dal comodo sogno del posto fisso all’idea del percorso. Nella scuola occorre educare e non solo riempire di nozioni, e orientarsi alle professioni e non solo all’accademia. L’individuo solo, senza autorevolezze da seguire, senza squadra, senza una scossa nella propria umanità che giunga per attrattiva di un esempio e senza piacere che si impara a gustare scoprendo il senso di un lavoro… non ce la farà mai.

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