La disastrosa alluvione che ha colpito vaste aree di Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo – l’Europa bene – ci rammenta che non è finito il tempo della Grande Incertezza. Quando un disastro del genere succede da noi, tutto rientra nel saccente territorio del già saputo: “Colpa del dissesto idrogeologico e della cementificazione.
Una tragedia che si poteva evitare. Il governo annuncia nuovi investimenti”, e via discorrendo. Lì no, lì non sono sciatti, sono nordici, e non hanno neanche le montagne che notoriamente smottano e franano e scaricano torrenti più che le pianure. Lì non è colpa del governo ladro, perché loro programmano, controllano, non sperperano. È colpa del riscaldamento globale. Non ne dubitiamo: lo dicono gli esperti dei cambiamenti climatici, senza confutarsi a vicenda manco fossero virologi.
Comunque sia, lo stucchevole luogo comune del “si poteva evitare”, questa volta nessuno osa dirlo. L’incertezza resta. Per scongiurare simili eventi, o ridurne l’impatto, sempre che ci si riesca, bisognerà lavorare – e sottolineo lavorare – e lavorare a lungo per ridurre le emissioni climalteranti, nella direzione dello sviluppo sostenibile. Che, a differenza del confetto Falqui, non basta la parola. Quanto ai tempi, quelli reali, non i 2030, 2050 delle “agende”, lasciamo ai redivivi Nostradamus di anticiparci quando gireremo tutti con macchinine e suvoni elettrici, a idrogeno, a pannelli solari, sotto soli gentili e pioggerelline saggiamente distribuite nel tempo e nello spazio, mentre in Africa si scanneranno su commissione, più di adesso, per il controllo dei metalli e delle terre rare.
Resta il fatto che, intanto, il presente è segnato dall’incertezza. Possiamo anche non accorgercene o far finta di non accorgercene, ma la realtà è questa, per quanto distratti dalla riconquistata libertà di spiaggia e pizzeria, alla faccia della pandemia.
E poi, senza drammatizzare, un filo di incertezza ce lo dà la variante Delta, che ha provocato prudenti ripensamenti in Macron e addirittura in Boris Johnson.
E poi, c’è un’incertezza anche nella prevista ripresa economica e sociale del Paese. Gli indicatori mettono il barometro sul bel tempo, è vero. Ma le ricadute benefiche non saranno un automatismo. Per esempio, nessuno ha certezza di quanti posti di lavoro si genereranno dagli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. E di quanti posti, invece, saranno cancellati dalla digitalizzazione e dall’indispensabile innovazione, e che prospettive si potranno offrire a quelle persone rimaste a piedi.
Abbiamo guai seri da sanare nel sistema della formazione e nella mentalità con cui si affronta il mercato del lavoro. L’anno di didattica a distanza ha provocato lacune micidiali di apprendimento in un sistema dove mediamente non si studia abbastanza (e chi meno ha studiato è più colpito dalla disoccupazione). Inoltre le aziende hanno posti disponibili già ora, e altri che si creeranno, ma non trovano chi li occupi: o perché mancano le competenze giuste, o perché non ci si vuol spostare da casa propria, o perché si preferisce vivere di reddito di cittadinanza (e lavorare in nero). Insomma perché non si vuol cambiare.
Ecco, cambiamento è la parola chiave da correlare a incertezza. I lavori evolvono ed evolveranno rapidamente, e chi ha un impiego oggi deve disporsi e attrezzarsi per averne un altro diverso domani, in un “percorso” di cui non si conosce già il traguardo. Come ha magistralmente detto Bauman, quando ha affermato che nella società di oggi “l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza”. O Edgar Morin (lucidissimo cervello centenario): “Siamo entrati nell’epoca della grande incertezza”.
Rifiutare il cambiamento ed esorcizzare l’incertezza è la via comoda ma ingannevole. Illudersi di poter dominare sempre e comunque la realtà e illudersi di poter galleggiare per inerzia nel proprio status: è ora di disilludersi, prima che sia troppo tardi.
Può vivere e non morire nell’incertezza e sa praticare il cambiamento chi “ha il coraggio di dire io”, come recita il titolo del Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli di quest’anno. E lo può fare, certamente perché ha sviluppato e maturato qualità importanti della sua personalità e competenze adeguate, ma soprattutto perché trova (o cerca) consistenza in una realtà che trascende le circostanze della vita e dà senso a tutto. Beh, l’ha detto (ovviamente) meglio Massimo Cacciari (citato in Julián Carrón, C’è speranza? Il fascino della scoperta, Editrice Nuovo Mondo 2021): “Se la vita vale veramente, e cioè è intenta a raggiungere qualcosa che ne trascende sempre l’esistenza finita, allora non si teme la morte, la si vive”.
Come si genera un io così è la domanda cruciale. Meno la si elude, meglio sarà per tutti.
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