Democrazia, affari nostri

La disaffezione verso la politica pone interrogativi importanti sulla democrazia e la percezione che ne hanno i cittadini, anche nel nostro Paese

Nelle recenti elezioni amministrative d’oltralpe, un francese su tre non è andato a votare: una “secessione” dei cittadini dalla politica, come ha scritto Le Figaro. In Italia non va certo meglio. Secondo uno studio condotto da Ipsos e appena pubblicato (Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani, Il Mulino), il 56,2 per cento degli italiani si dice delusa dalla democrazia e pronta a sperimentare qualcosa di diverso.

Com’è potuto accadere che il frutto di conquiste così sofferte quale un assetto democratico liberale venga dato per scontato? Il suo richiamo sia percepito come retorico e superfluo? Com’è potuto succedere che la qualità del rapporto tra istituzioni e società civile non sia più al centro di lotte, di dibattiti, di condivisione, di campagne di sensibilizzazione? E soprattutto, com’è successo che la democrazia sia considerata un assetto “dovuto” e non invece l’esito di un impegno quotidiano, dietro a rivoli di una vita che cambia continuamente? Un cammino mai concluso, sempre da nutrire, un po’ da assecondare, un po’ da correggere e comunque da costruire sempre?

In Italia la storia della disaffezione alla politica non è ancora stata veramente scritta, tant’è, come scrive Ugo Finetti nell’ultimo numero di Nuova Atlantide dal titolo “Democrazia: l’amica fragile”, che andrebbero viste come campagne contro la democrazia, veri e propri lavaggi del cervello, passaggi storici come il Sessantotto, Tangentopoli e l’ondata di “anti-casta” dell’ultimo decennio. L’ideologia, spinta da chissà dove, ha spazzato via la passione concreta per la costruzione comune, rendendo quella odierna una società di nonni sessantottini, genitori giustizialisti, nipoti anti casta.

Sempre su Nuova Atlantide, Stelio Mangiameli parla di una crisi del fondamentale rapporto fiduciario fra cittadini e istituzioni dovuta all’erosione della forma classica di partito in favore di movimenti leggeri a forte spinta leaderistica e la politicizzazione della giustizia, origine del disordine dei poteri statali.

Lo studioso americano Michael J. Sandel va a fondo di questo problema in un’ottica globale, mostrando il crescente gap tra élite democratiche e popolo: “Il regno del merito tecnocratico ha ridefinito i termini del riconoscimento sociale, in modi che aumentano il prestigio delle classi professionali dotate di credenziali e svalutano il contributo di gran parte dei lavoratori, con un effetto erosivo sulla loro posizione e stima sociale”.

Lo sviluppo tecnologico e la delocalizzazione hanno provocato la perdita di posti di lavoro, e la conseguente percezione nelle classi lavoratrici del loro scarso valore nel sistema. “Quarant’anni di globalizzazione guidata dal mercato – conclude Sandel – hanno svuotato il discorso pubblico, tolto potere ai cittadini comuni e provocato una reazione populista che cerca di rivestire la denudata piazza pubblica con un nazionalismo intollerante e vendicativo”.

Ne consegue una svalutazione generalizzata del ruolo dei Parlamenti come luoghi di rappresentanza del popolo. Dice Nadia Urbinati: “La radicalità della situazione attuale ha visto parlamenti dimezzati, svuotati; parlamenti composti di pochi rappresentanti, come degli scampoli dei gruppi e di conseguenza scampoli dei cittadini. Il parlamento quale unico luogo dove vi era l’espressione di democrazia diretta, dove si discuteva e decideva direttamente, sembra aver perso la sua funzione. Oggi, quasi da nessuna parte, si discute e si decide insieme, neppure tra i pochi eletti in parlamento”.

È sulla stessa linea Francesco Occhetta quando afferma che “la cultura sussidiaria diventa la bussola di un nuovo processo culturale basato sulla ‘centralità’ e l’equilibrio di politiche che generano democrazia e diritti. L’interclassismo che la sussidiarietà permette riduce le disuguaglianze tra le classi sociali ed è l’equilibrio per una società aperta e inclusiva in grado di assorbire le tensioni sociali”.

È il cambio di paradigma richiesto da Lorenza Violini quando sostiene che “occorre superare il mantra di avere uomini soli al comando, di democrature appoggiate da masse informi condotte al consenso in forza di slogan che puntano alla pancia e non al cuore. I corpi sociali, in quanto corpi intermedi tra la società e il potere, possono tornare a essere visti non come portatori di interessi egoistici oppure di corruzione ma espressione di autentiche istanze finalizzate alla realizzazione del bene comune.”

Non è una questione innanzitutto giuridico-istituzionale. Come argomenta Michael Azurmendi, la crisi della democrazia nasce da “un io libero da qualsiasi legame con l’altro, un esemplare umano privo di vincoli”, per cui, come dice Zygmunt Bauman “l’indipendenza porta a una vita vuota, priva di senso e a una completa, assoluta, inimmaginabile noia”. La ripresa democratica, sussidiaria, solidale non può che partire dal fatto che, come continua Azurmendi, “nel mondo non pochi uomini e donne, anche agnostici e atei, lottano quotidianamente per purificare le loro intenzioni e per trovare delle linee guida morali che potrebbero orientare le azioni degli esseri umani. Io ero uno di questi e la mia massima preoccupazione per molti decenni, quando ero insegnante in un paese impaurito dal terrorismo, è stata di trovare una linea morale che mi guidasse verso una vita buona”.

A questo punto arriva però una riflessione decisiva: campagne orchestrate ad arte, anche globali, avrebbero potuto minare fino a questo punto la convivenza democratica se le persone avessero mantenuto alta la consapevolezza dei loro ideali di pace, solidarietà, operosità?

Continuare a educare a un ideale di bene comune avrebbe permesso ai corpi intermedi di non chiudersi in una posizione difensiva, autoreferenziale. Avrebbe forse dato a molti la motivazione per dare il giornale fuori dalle università e dalle fabbriche, dare del tempo nelle sezioni dei partiti, nelle realtà sindacali. Invece si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, rinunciando a correggere, richiamare questo spirito democratico, attraverso la formazione, la condivisione, il dialogo, la dialettica.

“Educazione a un ideale” è stato sentito come qualcosa di astratto in questi anni. L’educazione dell’io, non individualista, ma che vive, si forma nei corpi intermedi è la necessità che il nostro Paese ha ora. Che poi si usino anche i social a questo scopo, che ci siano meccanismi anche nuovi di rappresentanza, queste sono solo conseguenze di uno scopo che non può più essere dato per scontato.

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