Se sia irripetibile l’occasione di riformare la giustizia italiana, come ha scritto Buccini sul Corriere del 25 luglio, non lo so. Certo che se perdiamo questo autobus, sono dolori. Metteremmo a repentaglio i soldi europei per la ripresa. E sul versante giustizia, con l’Europa, non siamo messi finora molto bene: la Corte europea per i diritti umani ci ha richiamati un sacco di volte; per dire: il doppio dei richiami fatti alla Turchia. Imbarazzante.
Abbiamo una durata dei processi inaccettabile: normale permanente violazione della Costituzione, che richiede una “ragionevole durata”. Dobbiamo ridurre la media di un quarto. Lo si ottiene, fatta salva la buona lena del lavoro del magistrato, aumentando le risorse e diminuendo la durata della prescrizione. La riforma su cui Draghi mette la fiducia va in questa direzione.
Questione di buon senso. Infatti ci sono magistrati non ostili (ad esempio, Spataro, o il leader di Magistratura democratica, Rossi) e disposti al dialogo. Altri invece alzano barricate contro il disegno di legge, come Gratteri, De Raho, Di Matteo, cercando magari di accreditare l’inesistente ba-bau della mafia che così ci guadagnerebbe.
Cavalca – o è cavalcato? – da questa levata di scudi l’ex premier, leader designato del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che un giorno assicura fedeltà al Governo Draghi (della cui maggioranza fa parte) e il giorno dopo gli spara contro 900 e passa emendamenti, secondo le più antiche, stucchevoli e penose tattiche ostruzionistiche della vecchia partitocrazia, che chiunque le vedesse in atto, dico proprio nel momento del loro laborioso e “tecnicale” esercizio in aula, esploderebbe con Gaber: “E questa la chiamano democrazia…”. Con Conte il Fatto di Travaglio, naturalmente. Capi-corrente del potere giudiziario con partito e giornale.
Il fatto è che sulla falsa convinzione che la salvezza viene dalla giustizia (umana) si è costituito in Italia, a furore di (povero) popolo, un sistema di potere che ha prevalso sugli altri, quello legislativo e quello esecutivo, essendo in grado di condizionarli anche nell’esercizio delle loro funzioni.
Questa storia è notoriamente cominciata con l’inchiesta Mani Pulite nel 1992, e si è assestata come dinamica di potere politico-giudiziario con il patto non scritto con gli ex Pci, sancito dall’abolizione dell’immunità parlamentare, fortemente voluta dal partito di Occhetto e promossa a più riprese dall’allora presidente della Camera, esponente dello stesso partito, Giorgio Napolitano. Con quella scelta si consegnava Craxi e si dava un’indispensabile sponda politica al pool guidato da Borrelli, certificando il calabrache della politica (già di suo al punto più basso della sua storia repubblicana) e salvando la propria ghirba. Il potere giudiziario divenne il potere più decisivo in Italia. Fallì l’obiettivo conclamato di moralizzare l’Italia (si vedano le riflessioni del più intelligente uomo del pool, Gherardo Colombo); in compenso si produsse la morte dei partiti democratici (Dc, Psi, Psdi, Pli, Pri), e si salvarono le due estreme, (ex) comunisti e (ex) fascisti e il neo-populismo manettaro dell’epoca, cioè la Lega Nord di Umberto Bossi.
Si creò un abnorme blocco di potere, fondamentale per combattere Berlusconi, ma soprattutto predominante sugli altri e autoreferenziale. Con il risultato di trascinare l’autogoverno nella logica spartitoria delle correnti, altro che la peggior Dc dei vecchi tempi (nessuno ha potuto smentire il “sistema” come descritto da Palamara, vedi il libro intervista con Sallusti) e alla fine nelle guerre intestine che si combattono senza esclusione di colpi. Per dire: chi l’avrebbe immaginata un’icona di Mani Pulite come Davigo sotto inchiesta? Nel frattempo non va dimenticato che tutta questa storia ha danneggiato l’economia del Paese e il benessere del popolo. Ma anche il prestigio della categoria e il buon nome delle tante toghe che fanno bene il loro lavoro.
Ma occorre chiedersi se non vi sia un virus che ha provocato questa anomalia, e di che virus si tratta. Si tratta dello stesso tarlo che può corrodere ogni potere, per quanto legittimo: l’autoreferenzialità; il non ammettere né accettare un riferimento fuori di sé, neanche nel popolo, al cui servizio la Costituzione obbliga l’ordine giudiziario, e almeno come tentazione, neanche nelle istituzioni che esso esprime, il Parlamento e, attraverso questo, il Governo.
In altri termini, un potere autoreferenziale è un potere che non si autolimita, e così diventa prepotenza. Salvo incontrare un potere più forte e violento.
Prepotenza è parola assai pregnante, più di quanto non appaia a prima vista nell’uso comune; parola che mi ha singolarmente colpito in due occasioni: quando don Giussani parlò del potere e della prepotenza all’assemblea regionale della Dc lombarda nel 1987 ad Assago, e quando il leader del Movimento studentesco e poi di Democrazia proletaria, Mario Capanna, mi regalò un suo libro intitolato Il fiume della prepotenza. Punti di vista diversi, certo; ma guarda un po’ che combinazione.
Ma per potersi lasciar limitare, ogni potere – anche il personale potere di ciascuno di noi; ma a maggior ragione i poteri importanti e strutturati – deve riconoscersi non totalizzante; non autoreferenziale ma chiamato a rispondere – insieme e in armonia con gli altri poteri costituzionali – a qualcosa di più grande, che è il bene del Paese e della sua gente.
Robespierre ha fatto i suoi disastri e, vivaddio, il suo tempo. È ora di farsene una ragione.
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