Jesús Carrasco ha pubblicato all’inizio dell’anno il suo terzo romanzo Llévame a casa (Portami a casa). Veniva alla luce, in piena pandemia, un’opera dedicata alla cura di un essere amato la cui memoria percorre strade ogni volta più contorte fino a smarrirsi. Il figlio che si prende cura della madre, che vive in un villaggio, viaggia verso se stesso mentre l’accompagna. È la storia di un ricongiungimento nel quale si superano le incomprensioni e le frustrazioni che si erano create in una convivenza familiare segnata da ferite. In questo racconto, la cura per gli anziani è molto più che il risultato di un freddo obbligo etico, è l’occasione offerta al figlio di recuperare un’umanità che stava perdendo colore.

Carrasco, uno dei migliori scrittori spagnoli degli ultimi decenni, ricrea nei suoi personaggi ferite che tutti possiamo riconoscere come nostre. Nell’incontro o nel ricongingiumento di questi personaggi con l’altro (un capraio, un uomo semplice torturato da un sistema totalitario, una madre) avviene un cambiamento inaspettato. Nel suo primo lavoro, Intemperie, tradotto in italiano nel 2013, l’incontro è tra un capraio e un bambino che fugge da una sporca e atroce violenza. Il capraio è la rappresentazione di quel padre tanto desiderato in questo inizio di XXI secolo, quel padre spesso così assente. È un uomo di poche parole, che sfida la libertà del piccolo, che, attraverso la sua cura, i suoi sguardi, il suo modo di stare al mondo, genera di nuovo una creatura che era stata deformata.

È in sua compagnia che la paura, diventata la sua seconda anima, comincia a essere vinta. Il bambino cambia e si rende conto del cambiamento, si rende conto che quell’uomo, nel quale si è imbattuto per un colpo di fortuna, gli ha fatto vincere il terrore che lo soffocava. Era scappato da una casa che si era trasformata in un inferno, senza un piano, né le armi necessarie per far fronte a tutto il male che lo perseguitava, e incontra in modo imprevisto chi lo abbraccia, chi gli dà da bere, chi lo cura. 

Tutto questo succede in paesaggi bruciati dal sole, dove la mancanza di acqua è angosciante. Il lettore si identifica facilmente con il bambino generato di nuovo nel mezzo di un deserto. Il capraio sa dal principio qual è il prezzo di quello che sta facendo: la propria vita. L’offerta cosciente di ciò che fa. Il suo corpo lacerato per difendere il giovane ragazzo è raffigurato in modo simile a quello di Cristo. La prosa di Intemperie, con uno spagnolo ricchissimo e drammatico, in un mondo inospitale, descrive le modalità di una nuova nascita, di un io ricreato in un tu. Questa storia riesce a descrivere bene il grande oggetto della nostra nostalgia in questo tempo.

Nel secondo romanzo, La tierra que pisamos (La terra che calpestiamo), l’incontro avviene tra la moglie di quello che fu un dirigente importante di un regime genocida e una delle sue vittime, un uomo che è riuscito a sopravvivere e che è stato spogliato di tutto. In questo caso, la relazione vince l’ideologia, abbatte le menzogne. Il male continua a essere presente e Carrasco descrive come la protagonista, anche lei vittima della violenza e della guerra (ha perduto l’unico figlio), sogna dapprima la resurrezione, poi la rifiuta. La rifiuta perché le sembra una sublimazione, perché non è reale. In questo no categorico a una resurrezione che non ha maggior consistenza di una ricerca di consolazione, l’autore raggiunge una drammaticità piena di provocazione e intelligenza: non serve una risposta al male che sia una semplice proiezione del desiderio. Forse in questo rifiuto c’è una profezia.

La tierra que pisamos termina con la nostalgia lacerata di una maggior unità tra gli uomini e tra le creature. Carrasco sa rivelare al lettore echi del mistero della sua persona che non aveva più ascoltato, lo aiuta a riconoscere le paternità che lo hanno generato di nuovo. Carrasco dà voce a questo grido che chiede in noi un’unità, una comunione definitiva, ma non accetta, fortunatamente, soluzioni facili, fantasticherie.

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