Riaprire e ripartire: dal punto in cui il Covid aveva messo i catenacci ai padiglioni, ma per guardare immediatamente oltre. Per imboccare percorsi strategici nuovi, anzi: per non rinviare oltre scelte e svolte che erano mature già prima della pandemia.
Non c’è soluzione di continuità – operativa e simbolica – fra l’utilizzo delle fiere italiane come hub per la campagna vaccinale e il riavvio serrato degli eventi espositivi. Il luogo visibile del dramma socioeconomico – ma anche della resilienza -Paese – lo sta diventando, lo deve diventare “qui e ora” della Recovery nazionale.
La fieristica italiana è molto di più di un settore dell’Azienda-Italia: è un’infrastruttura portante e il principale biglietto da visita del Made in Italy. Lo è in Italia e lo sono sempre di più fuori d’Italia. Se le fiere non centrano il bersaglio del loro rilancio, rischiano seriamente altre ripartenze cruciali. Quelle del legnoarredo o della meccatronica, del “fashion” o “food” in Italy, di tanti altri segmenti che generano il Pil più “buono”, quello fatto di export e ricerca industriale. Ma è in pericolo anche il Pil sociale – oltre che economico – creato dalla fieristica più orientata all’artigianato italiano, diffuso e prezioso; cioè al consumo sostenibile.
Il Governo si sta muovendo, le Regioni anche. La Lombardia (il cui Pil è mosso al 3% da Fieramilano) ha pronto un piano che si annuncia come pilota: anche nell’affermare un primo “doppio binario” in era Pnrr. Stato e Regioni possono e devono collaborare sul rilancio delle fiere; e le Regioni “fieristiche” si devono muovere con prospettiva nazionale.
Nei contenuti strategici, un “doppio registro” basico – fatto proprio anche dalla Lombardia nel suo piano – guarda al puntello dei conti feriti in modo grave dai lockdown, ma ponendo subito subito anche un nuovo, necessario balzo in avanti della competitività. Oltre a ripianare le perdite occorre metter a budget subito nuovi investimenti.
Nello step successivo la sfida si ripresenta doppia, forse nell’ottica più cruciale: la (ri)costruzione di una fiera “phygital”, che fonda il valore (non solo tradizionale) della fiera “in presenza” con il valore – non più solo potenziale – della fiera digitale.
Il valore vero – e largamente accumulato nei decenni dalle fiere italiane – resta quello insito nella relazione: coltivato già attraverso una ricerca costante di un’offerta di servizi sempre più competitiva. Espositori e compratori partecipano agli eventi delle fiere italiane perché rispondono a una domanda principale di valore (il matching di mercato) in formule sempre nuove e più ricche: imperniata sempre sulla forza di alcune “industry” nazionali ma anche, ad esempio, l’attrattività turistica del sistema-Paese. La digitalizzazione delle fiere – caso-pilota annunciato della grande direttrice disegnata dal Pnrr – deve produrre un’aggiunta di valore strategico là dove ce n’è già molto. Senza distruggerlo, senza pensare di sostituirvisi. Scegliendo la prospettiva corretta: il digitale non deve proporsi di dichiarare obsoleto il padiglione fisico quanto piuttosto di promuoverne tutte le potenzialità (ad esempio, nelle dimensioni dell’economia della conoscenza, dalla formazione alla consulenza)
Non ultimo, il sistema fieristico italiano a una svolta epocale non deve aver timore di risolvere i “doppi momenti” problematici presenti al suo interno: fiere grandi di rilievo internazionale e fiere piccole in declino; eventi che di fatto si ritrovano a competere fra loro a poche centinaia di chilometri, con effetti-zero se non negativi per gli organizzatori e per l’economia. Aggregazioni, sinergie, logica di filiera: i modelli per analizzare le rete e pilotarne il cambiamento non mancano. Ora è però il momento di utilizzarli.
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