L’ultima volta che ci siamo visti faccia a faccia, una brezza soave soffiava tra le foglie degli alberi. Li aveva piantati lui stesso vicino alla sua casa e la luce dolce dell’estate sul fianco del monte Igueldo ci accompagnava con discrezione, esaltando la bellezza delle parole. Le mani nodose di Mikel, provate dall’artrite, che erano state le mani di un operaio in fabbrica, di uno scaricatore, di uno scrittore, di un professore, facevano disegni nell’aria per spiegare cose della terra. Parlava di Gesù di Nazareth, in Dio non avrebbe creduto, lui che conosceva quasi tutti i nomi che Gli sono stati dati. Ripeteva le parole di Gesù, che nella sua bocca avevano il respiro del presente, e diceva che la vita era per essere data. “È risorto e sappiamo che risorgeremo”, diceva con il suo sorriso di bambino canzonatore sotto i baffi bianchi. E l’ultima cosa da fare, la meno ragionevole, la meno logica, sarebbe staccarsi da questo “sappiamo”. L’ultima cosa da fare, adesso che ci mancano i suoi abbracci, sarebbe avere un pensiero, un sentimento, un battito di cuore lontano da questo “suo sapere” sulla resurrezione.
Azurmendi non parlava di spiritualità perché stava arrivando alla fine della sua vita. Azurmendi non parlava di spiritualità. Era il contrario, come lui stesso diceva, era la vita, la vita buona che aveva sempre cercato, quella che lo aveva raggiunto attraverso un incontro. Azurmendi non aveva nessuna inclinazione verso il cattolicesimo, piuttosto un rifiuto: quando aveva saputo che Girard e Macintyre, due autori che lo avevano attirato, erano cattolici li aveva messi da parte. Tuttavia, in un momento inaspettato, a partire dal 2014, volle “studiare i nessi causali e temporali del suo stupore”.
Suo padre, che aveva una fabbrica di carbone sull’Igueldo, lo portava con sé a lavorare due ore prima che andasse a scuola, e per due ore dopo la fine. E la domenica a lavare il camion. Fu suo padre che gli insegnò che le cose si dovevano fare fino alla fine, andavano portate a termine, e questo voler fare le cose fino alla fine ha segnato la sua vita. Studiare il basco fino alla fine per saperlo come nessun altro, perché conoscere la lingua era sapere come uno si identifica. Euskera (basco) vero, dei caserío. Fino alla fine la lotta per la giustizia sociale, che non si poteva imparare teoricamente sui libri, ma facendo turni di lavoro in fabbriche che nessuno regge. E fino alla fine l’entrata e l’uscita dall’ETA, la lotta contro la dittatura silenziosa del terrore. Fino alla fine ha significato subire attentati, minacce, l’esilio in Spagna (Almeria) e fuori dalla Spagna (Stati Uniti). Fino alla fine anche con la filosofia, la sociologia, con lo studio delle streghe.
Fino alla fine non significava solo essere fedele a ciò in cui credeva, ma ascoltare e seguire seriamente quello che il suo cuore intelligente gli suggeriva in ogni momento. Per questo, nel lontano autunno del 1966, quando Julen Madariaga, capo della nascente banda terrorista, obbliga a decidere in sua presenza un assassinio per votazione, egli si ribella. Non dimenticò mai quel momento che lo fece allontanare dalla violenza.
Fino alla fine anche nella sua critica al sistema di convivenza nato dall’Illuminismo, basato esclusivamente sui diritti soggettivi di ogni cittadino. Un sistema che considerava fonte di conflitti sociali, perché trasforma l’altro in una frontiera. Questa critica lo ha portato a un certo punto in una specie di vicolo cieco nella sua ricerca. Non c’era più alcuna possibilità di costruire una vita buona, se non forse in un imperativo categorico di carattere etico, o nel trasformare la scelta nel criterio ultimo. Ma questa scelta non serviva a distinguere il bene dal male.
Poi, in modo inaspettato si imbatté in una “tribù di cristiani” che attirò il suo interesse: “Qui succede qualcosa”, si disse. Si sbarazzò dei dogmi della sociologia di Weber e Durkheim, che gli impedivano di implicarsi personalmente, e si tuffò in ciò che lo aveva stupito. Fino alla fine, guidato da una lealtà, una capacità critica, una sistematicità e una semplicità per superare pregiudizi che non si sapeva da dove sorgessero. A un certo punto della sua indagine si trovò a dover accettare o rifiutare quanto questa strana tribù diceva di se stessa, delle sue origini. Allora si ricordò di uno dei suoi grandi maestri, Wittgenstein. Azurmendi non voleva rimanere, come il filosofo austriaco, ad aspettare la venuta di un Dio che discendesse come la luce che filtra da un lucernario. Voleva rischiare di riconoscere, in una catena di testimoni, il Dio che si era incarnato, che era presente.
Fino alla fine nell’usare la ragione e il cuore. Tutto, negli ultimi sei anni di Mikel, è stato un essere sedotto e un lasciarsi sedurre dal Dio presente. Fino allo scorso venerdì, quando Gli si è presentato, afferrandolo interamente. Sapeva di essere vicino a questo momento. Voleva spendere la vita donandola. Fino a quando non torneremo a sentire la sua voce, mentre il vento muove le foglie sotto una luce eternamente dolce, sarebbe irrazionale guardare il mondo lontano dalla risurrezione che ha conosciuto.
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