Le previsioni sono saltate. Gli Stati Uniti sapevano che il ritiro dei propri militari e di quelli dei loro alleati avrebbe comportato un inasprimento della guerra civile in atto da parecchi anni in Afghanistan. E prevedevano che i talebani potessero prendere il potere nel giro di sei mesi. Tutto è precipitato nelle ultime settimane, molte aree del Paese sono cadute senza resistenza e Kabul è già in mano agli islamisti. È successo prima del ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, prima che tutti i soldati statunitensi fossero tornati a casa. È inevitabile fare confronti con la caduta di Saigon nella primavera del 1975, quando la rapida avanzata delle truppe nordvietnamite colse di sorpresa i servizi di intelligence nordamericani.  

Da quando, due decenni fa, Bush iniziò la campagna contro i talebani, continuata poi da Obama e da Trump, gli Stati Uniti hanno compiuto un grande esercizio di generosità. Molte famiglie nordamericane piangono la morte dei loro giovani (3.000 caduti nella coalizione internazionale), che combatterono in terre lontane in una guerra per tentare di rendere più sicuro il mondo. Gli Stati Uniti hanno saputo vincere la guerra, ma, come altre volte, non la pace, dopo aver speso quasi un trilione di dollari. È una storia simile a quella dell’Iraq. La ricostruzione non ha favorito la riconciliazione. I governanti afgani sostenuti dagli Stati Uniti non volevano facilitare l’integrazione dei talebani e i talebani hanno saputo guadagnarsi un forte appoggio popolare tra i pashtun. Ancora una volta c’è stato un errore dell’Occidente nella comprensione delle chiavi culturali di un conflitto.

Come ha spiegato a suo tempo Oliver Roy, buon conoscitore del Paese, i talebani non sono la “necessaria” espressione dell’identità afgana: si sono imposti di fatto su molte tradizioni precedenti. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali si sono sbagliati culturalmente nella lotta contro i talebani, come si sono sbagliati quando utilizzarono gli islamisti come alleati. Occorre ricordare che negli anni ’80 Washington considerò i mujaheddin come alleati naturali contro i sovietici. Si trattava di un’alleanza di credenti contro gli atei, un’alleanza di combattenti per la libertà, come diceva Reagan. Era perciò necessario sostenere le scuole coraniche, dove si insegnava e si insegna un’interpretazione politica dell’islam. L’ultimo errore è stato quello di Biden, quando ha annunciato anticipatamente il ritiro delle truppe.

Gli errori culturali sono stati ingigantiti da un contesto geopolitico negativo per gli occidentali, nel quale il Pakistan è stato un elemento chiave. Si tende sempre a sottovalutare la capacità di destabilizzazione di questo Paese, dove l’esercito controlla lo “Stato profondo” e che è sempre stato rifugio e sostegno per i talebani. Gli Stati Uniti sono sempre stati traditi dal Pakistan. E a questo bisogna aggiungere l’influenza cinese e iraniana.

La presa di Kabul nelle ultime ore ha aumentato la crisi umanitaria, che vede più di 250.000 rifugiati all’interno del Paese, e crea una forte incertezza per la possibilità che l’Afghanistan torni a essere il Paese sinistro, oscuro e barbaro, soprattutto per donne e bambini, che era 25 anni fa. Rinasce anche il timore che possa diventare il rifugio dello jihadismo internazionale. I talebani inoltre non ridurranno certamente lo sfruttamento del traffico internazionale di droga. Probabilmente l’Afghanistan diventerà sempre più un narco-Stato.

Resta da vedere quali relazioni verranno stabilite con Turchia e Qatar, i due grandi motori dell’islamismo. La speranza è che quei luoghi dove si è prodotto un cambiamento culturale, un rispetto dei diritti umani, specialmente delle donne, servano come punto di resistenza. Specialmente a Kabul, per anni, si è assaporato il gusto della libertà. Nella capitale c’è la connessione a internet. Kabul non rappresenta l’insieme del Paese, ma fa la differenza.

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