I popoli nelle crisi si assomigliano tutti. Le facce smarrite che cercano rifugio altrove sperando di realizzare se stessi lontani dalla propria terra, la speranza di scappare come unico atto di ribellione, spezzando legami e affetti che diventano lontani all’improvviso mettendo altra terra dietro di sé solo per ritrovare la pace ormai persa, inseguiti da un destino che pare più grande e invincibile di ogni scelta individuale.
Uno tsunami che annega ogni speranza, improvvisa, altissima l’onda del dolore copre ogni minima speranza. Un copione che parte sempre da una promessa tradita. La promessa di eterna amicizia che si trasforma in un impegno a tempo, sacrificando ogni valore sull’altare degli interessi.
Un popolo intero che aveva creduto in un barlume di civile convivenza, di libera espressione del proprio “io” collettivo che si ritrova in balìa di criminali vestiti da Stato, con le loro regole tribali, la loro necessità di ammantare il potere violento con l’adesione a principi familiari. Nel mentre le donne sono relegate ai margini come fattrici di altri uomini e i ragazzini avviati a conoscere solo un modo di vivere e di pensare.
Gli amici di un tempo, che avevano promesso di investire risorse e regalare una speranza, improvvisamente diventano accusatori feroci. Rinfacciando anche che non era quello che dicevano ad essere importante, ma solo i loro interessi, che nulla si poteva fare di più. Che troppi sono stati i sacrifici di vite umane e i soldi spesi per continuare a combattere. Meglio una resa concordata nelle mani di narcotrafficanti fanatici che una guerra senza fine.
Questa sembra la situazione afghana dei recenti giorni, ma è in realtà la storia di molti quartieri del Mezzogiorno. E per certi versi potrebbe essere la sorte di tutto il Mezzogiorno se all’improvviso lo Stato decidesse di rinchiudersi nei confini di un regionalismo spinto, perdendo ogni possibilità di continuare a investire risorse e speranze per dare forza ad una prospettiva diversa in un pezzo del Paese.
Trattare con la malavita che si crede Stato, o che si fa Stato, è una delle scelte più cinicamente efficaci che i policy maker avanzano quando vogliono chiudere una questione. Si prende atto che sono più forti in certe aree, si concorda un lasciapassare per gli uomini in divisa e si chiede, cortesemente, di rimanere a far danno in quei confini, affidando alla gente che vi abita clemenza per i nuovi potenti. La strategia funziona perché elimina il conflitto, istituzionalizza gli interlocutori e crea una sorta di status quo perenne nel quale ognuno non ha più vantaggio allo scontro. Solo che interi pezzi di territorio, quartieri, e a volte intere aree grandi come province, sono nelle mani della criminalità che si pone come Stato, come controllore e dispensatore di giustizia. È accaduto più volte che pentiti di mafia abbiano raccontato che questa era una proposta concreta dello Stato.
L’effetto è che si rafforzano quelle organizzazioni che tendono a invadere con la loro logica e il potere acquisito aree limitrofe e a diventare esempio per altri. I popoli sotto il giogo di questi poteri oscuri perdono i pezzi migliori che emigrano e si impoveriscono culturalmente perdendo ogni capacità di essere utili e produttivi, ormai relegati a sudditi di quei poteri che non chiedono altro che essere omaggiati.
La criminalità ha esteso il suo potere e i suoi interessi ben oltre i confini storici del Mezzogiorno e soprattutto ha imposto un abito culturale che ha invaso pezzi interi del Paese e dell’Europa fino a farsi parte del sistema di potere globale. Come il capo dei Talebani si è seduto con Mike Pompeo da pari a pari, così un tal Imperiale da Castellammare di Stabia era un reuccio in affari a Dubai con il jet set internazionale. Entrambi con la forza della droga alle spalle ed espressione di culture criminali cresciute grazie alla politica del dialogo e “degli interessi”. Solo che il primo ora è un capo di Stato, mentre il secondo, per fortuna, è in galera da due giorni.
Noi dovremmo sapere che lasciare un popolo in balìa di questi poteri è la fine stessa dell’idea di Occidente e di libertà, la fine di una reale solidarietà umana e l’accettazione di una visione particulare, direbbe Guicciardini, che nel lungo periodo distrugge ogni reale prospettiva di crescita sociale.
Se avessimo lasciato il Mezzogiorno all’indomani di Capaci e via d’Amelio, se avessimo accettato il potere straripante di Cutolo e dei Casalesi come un dato di fatto, se non avessimo continuato a combattere un potere deviante e spietato, oggi sarebbe realtà l’idea di un Mezzogiorno indipendente in mano alle mafie. Progetto drammaticamente reale.
E’ vero che il Mezzogiorno ancora fa fatica, ancora restano poteri deviati basati sulla droga che foraggiano consenso criminale, ma ancora si combatte, ancora si coltiva la speranza e la civiltà e appare all’orizzonte una possibilità di riscatto grazie all’Europa e al Governo Draghi.
E’ forse per questo, per la sua comprensione di questi fenomeni, che il presidente del Consiglio non molla la questione afghana, per questo si è mosso come primo per avviare una fase in cui riportare al centro diritti e aspettative di quel popolo. Perché tradire una parte del mondo sui diritti per un interesse di breve periodo è come tradire il mondo intero. E come ha voluto fortemente che il Mezzogiorno recuperasse gap economici e sociali con politiche di investimento e di rilancio, anche e soprattutto nell’interesse di lungo periodo dell’Europa intera, così sa che non può lasciare interi popoli in balìa di poteri oscurantisti e criminali.
Mollare vuol dire avviare una ritirata economica e sociale il cui prezzo pagheremo tra anni. Ma sarebbe salatissimo e forse fatale per l’idea stessa di democrazia liberale e per i suoi valori. Come per il Mezzogiorno, bisogna insistere e lottare con tutti gli strumenti che abbiamo. O avremo i popoli nelle crisi, sempre più simili tra loro, nelle mani di un potere distruttivo.