Soluzioni del rebus afgano, al momento, non se ne intravvedono. C’è se non altro una lezione da recepire e di cui fare tesoro: che la democrazia non è merce da esportazione. In altri termini non può essere introdotta dall’esterno e dall’alto, come fosse un modello organizzativo aziendale stile McKinsey. Si conferma una verità se vogliamo antica: la democrazia non si regge solo sulla divisione dei poteri istituzionali e su libere elezioni, ma anche e innanzitutto su una realtà sociale di libere formazioni che tendono a convergere su obiettivi di bene comune, salvando le differenti esigenze e identità in un processo di riconciliazione. È stato così per l’Italia dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Ed è stato così per il Libano, dove i figli dei musulmani frequentavano le scuole dei frati francescani, finché interessi esterni hanno sacrificato questo modello di convivenza, massacrando il Paese dei cedri.

Forse non servono “soluzioni”, specie se ultimamente mirate all’affermazione di un posizionamento sullo scacchiere geo-politico delle egemonie. È finita, con l’esportazione delle democrazie, anche la pretesa di salvare il mondo con l’egemonia. Il problema è casomai come frenare o circoscrivere le mire egemoniche altrui, che siano russe o peggio cinesi.

La democrazia non può che nascere dal basso, da esperienze esemplari, da un senso di appartenenza che prevale sulle diversità senza annullarle. Alla radice dal senso religioso degli uomini, sorgente del desiderio della persona e dei movimenti positivi della storia. Men che meno si esportano una cultura (se non come imposizione di un’egemonia ideologica o di una moda consumistica, che non sono cultura); né il cristianesimo, né alcun’altra religione. Non “esportarono” il cristianesimo i grandi missionari, dai gesuiti delle Reducciones in Paraguay a Matteo Ricci in Estremo oriente: lo fecero fiorire mettendo il seme nel cuore – religioso – delle persone e della comunità.

Non si è mancato di paragonare la disastrosa ritirata da Kabul a quella da Saigon, alla fine della (perduta) guerra del Vietnam. Nessuno, o quasi, ascoltò il giudizio di un grandissimo missionario, giornalista e scrittore, padre Piero Gheddo, che criticò i vietcong, beccandosi del fascista dai campioni della follia ideologica marx-leninista degli anni 70, e criticò pure gli Stati Uniti, beccandosi del comunista dai soliti più realisti (o lealisti) del re. Gheddo scrisse che gli Stati Uniti avevano del tutto trascurato di riconoscere e sostenere le forze moderate, nazionali, vietnamite credendo più nella propria potenza militare, nelle bombe e nel napalm calato dall’alto che in un percorso di rinascita dal basso. Insomma: serve una logica di sussidiarietà, e non per modo di dire o per ripetere uno slogan.

Ieri al Meeting di Rimini si sono intravisti – per chi è stato attento – gli albori di una possibile, lunga, debole magari, ma non sostituibile strada di costruzione: precisamente nel dialogo tra importanti esponenti delle religioni musulmana (l’imam Damir di Mosca, il rabbino Rosen di Gerusalemme, il patriarca Sako di Bagdad, il cardinale Zuppi di Bologna). Essi hanno proseguito la riflessione e il confronto destato dalla pubblicazione dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, il cui messaggio è penetrato come mai prima nella testa e nel cuore di persone e ambienti realmente religiosi delle tre fedi monoteiste.

Essi desiderano non solo di riconoscersi fratelli perché figli dello stesso Padre sul piano religioso, ma anche di cooperare a una società amichevole, inclusiva e coesa, in cui ognuno si afferma non nella guerra ma nell’accoglienza dell’altro. Hanno fatto anche esplicito riferimento all’Afganistan e alla gente che lì soffre, esortandosi vicendevolmente a pregare tutti per loro, a dedicarsi al soccorso dei deboli, a collaborare nell’apertura di corridoi umanitari per i profughi, a sostenere se possibile le opere buone delle Ong o di altre organizzazioni assistenziali per la popolazione.

È un segnale piccolo e grandioso, come una scintilla che può generare un gran fuoco. Certo, bisogna alimentarlo.

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