L’eroina italica, icona di queste olimpiadi, è – per conto mio – una badante di origine nigeriana, di nome Veronica. È la madre di Fausto Desalu, il ragazzo che ha vinto l’oro nella staffetta quattro per  , ma che prima ha imparato dalla mamma che si comprano le scarpe nuove solo quando le vecchie sono rotte e non si possono più riparare.

Mamma Veronica è quella che ha declinato l’invito (è lecito supporre ben remunerato) a partecipare a una trasmissione televisiva perché impegnata per lavoro: doveva giustappunto “badare” al suo anziano da assistere. Chapeau: lo so per esperienza diretta che un politico, ma mi pare anche un virologo, o vattelapesca, non resiste a un microfono che gli metti sotto il muso o a una telecamera da cui si sente ostentato più che su Facebook. Veronica, no: lei sta ben pianta sul quel che conta, non ciò che appare.

Non è questione di fare del peloso pauperismo o dell’elitario snobbamento del successo sportivo: scarpe o non scarpe, telecamere o non telecamere, chi non si esalta per le vittorie italiche alle competizioni internazionali qualche problema deve avercelo. Quaranta medaglie portate a casa da Tokyo sono un godimento, da cui è stato bello, umano, lasciarsi catturare, una per una. Guardare, ammirare, sentire un’appartenenza: senza questo uno sarebbe già mezzo morto. L’ha detto benissimo Perrone proprio qui sul Sussidiario qualche giorno fa.

Sta di fatto che questa nostra povera Italia che sta sul fondo delle classifiche europee per tanti indicatori e performance, ha vinto gli europei di calcio per la sorprendente capacità di fare squadra (di andare cioè oltre il proprio io individuale) grazie innanzitutto al mister-maestro Mancini, e si è pure sorprendentemente portata a casa da Tokyo un lusinghiero bottino di quaranta medaglie olimpiche, guadagnate col sudore. Siamo lì, decimi, nella classifica delle medaglie; stessi ori di Germania, Francia e Olanda che ci precedono nella classifica ufficiale solo per via dei valori ponderati, perché hanno preso più argenti di noi, ma meno bronzi e meno medaglie in totale.

Ma non è questo che conta. Conta il “segnale” di Veronica. Vale a dire l’occasione che i nostri atleti, mi pare 384, ci danno di accorgerci che dietro il luccichio delle nostre quaranta medaglie olimpiche non c’è tanto l’eroe omerico invincibile, depositario e simbolo di una speciale grazia divina, c’è anche un’Italia operaia, umile e tenace, ammirevole e meritoria, che è bene guardare. L’Italia – anche dei non medagliati – della sostanza prima dell’apparenza: del sudore, della fatica, del lavoro per uno scopo ideale che soddisfi sé e poi, di risulta, anche tutti. Coppi e Bartali erano questo con evidenza immediata. Oggi tocca rifletterci un po’.

Questa osservazione, evidentissima in Veronica, vale per tutti. Per Marcell, l’uomo più veloce del mondo, tirato su da una donna sola; vale per tanti altri che prima non conoscevamo; vale per le “vecchie” glorie, la Vezzali o la Pellegrini, per dire, che hanno voluto misurarsi lealmente, a dispetto dell’età, e del palmares. Dopo di che, puoi arrivare anche quarto o quinto, o solo in finale, o neanche; e lavorare i quattro anni a seguire cavando dall’errore o dall’insufficienza opportunità per crescere.

Comunque la si giri, la parola chiave è lavoro. La lunga fatica di un lavoro, che dura anche anni, il sacrificio per uno scopo.

Questo scopo è esprimere e ritrovare il proprio io. Nella dottrina sociale della Chiesa brilla l’insegnamento del papa operaio e sportivo (oltre che poeta, filosofo, e tutto il resto): Karol Wojtyła, che ha parlato del lavoro così. La centralità del lavoro come realizzazione di sé è la stella polare che dovrebbe guidarci nelle grandi scelte, anche politiche, di oggi. Grazie campioni, e grazie Veronica.

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