Scappare è lo sport preferito di questi tempi. Che sia l’Afghanistan o la tabaccheria, chi ha la responsabilità di portare avanti un impegno preso solennemente, quando trova che le condizioni della fuga siano più vantaggiose, non ci pensa un attimo e molla. Altro che trincee e resistenza, i tempi insegnano la fluidità delle posizioni e dei valori come pratica quotidiana.

Un’ambigua rincorsa a ciò che conviene, avallata da un generalizzato senso di egoismo sociale che, in fondo, è premiato con un sorriso di compiacimento sul volto del popolo. Chi ha preso l’occasione ed è andato via, premiando prima di tutto se stesso, gode di un’ammirazione inconfessabile ma concreta. I sacrifici, la vita costruita sui valori, iniziano a perdere senso se paragonati alla voglia di trovare il proprio tornaconto e si insinua sempre di più come cardine di ogni ragionamento il “prima io” che gli altri. La società occidentale sta diventando sempre meno comunità e sempre più agglomerato di persone, che avanzano isolate, concentrate sui propri interessi, salvo poi chiedere aiuto quando la vita li espone ai rovesci dell’esistenza.

Non passa giorno che questa filosofia non trovi nuovi sacerdoti, stimolando la paura di non essere al centro dei propri pensieri. Il proprio tornaconto, sociale o personale, giustifica ogni posizione, ogni mutamento di pensiero. Utilizzando come ultima chance la fuga per togliersi di impaccio. Anche la politica è stata pervasa da questo morbo, allenando i suoi esponenti a cambiare posizione, seguendo, con fluidità, ciò che più conviene sul piano elettorale.

Ma la fuga lascia dietro di sé macerie morali e fisiche. Ogni abbandono è utile solo nel breve periodo, perché ciò che non si risolve, ma si lascia alle spalle, riappare poi con forza maggiore. Sono scappati dai problemi del Paese per decenni i politici. Giocando a fuggire dai problemi e dalle soluzioni. Timorosi di prendere impegni veri, pronti a promettere. Senza avere però la sostanza, la forza per andare a fondo.

È questa insipienza che ha svuotato il Mezzogiorno e che lo relega a problema invece che promuoverlo a risorsa e di questo abbandono si sono accorti in tanti che hanno deciso, a loro volta, di abbandonare il Mezzogiorno.

Lo spopolamento giovanile ha numeri simili agli esodi dai posti afflitti da guerre che, abbandonati, diventano terre di migranti. Come è accaduto per la Siria o per l’Afghanistan il ritiro di fatto dello Stato, con i suoi valori, provoca l’andar via di chi ha i mezzi culturali ed economici. La fuga diventa conseguenza necessaria. Se fugge lo Stato, con i suoi valori e le sue promesse, fugge chi di quello Stato si sente parte.

La nuova strategia che sta fiorendo pare aver assunto come premessa la necessità di presidiare i problemi e di affrontarli. In modo diretto e senza lasciare alla convenienza di breve periodo alcuno spazio.

Non è un caso che la nuova impostazione venga da un Governo guidato da chi ha, come formazione, l’etica del lavoro e della responsabilità e che ha vissuto la propria esperienza di vita soggetta alle leggi di Hans Kelsen, che predicava l’etica della responsabilità individuale contrapposta ad un’autoassoluzione irresponsabile della collettività.

Come ricetta, pare evidente che si punti nelle intenzioni ad incrementare il tasso di occupazione nel Mezzogiorno, anche ricorrendo a massicce assunzioni nel pubblico. Il tutto proprio per creare un argine sistemico alla generalizzata fuga dalle responsabilità che ha pervaso per decenni le politiche nel Sud del Paese. Il lavoro non è solo fatica e sudore, ma è dignità e consapevolezza. È autonomia del pensiero e dell’agire. Educa più la responsabilità del proprio lavoro che qualunque piano di formazione, e solo una crescita di questo tasso può arginare la fuga. Lo svantaggio del Mezzogiorno rimane elevatissimo nel 2020, con un tasso di occupazione del 48%, rispetto al 71,5% del Nord e al 67,4% del Centro. Il tutto rispetto ad una media nei paesi Ocse del 68%.

La cultura del lavoro, prima di ogni altra cosa, è l’antidoto all’egoismo, perché crea condivisone ed identità ed affranca da politiche assistenziali. E ciò non vuol dire non avere attenzione per le situazioni di disagio o di difficoltà. Anzi, offrire un supporto contro la povertà resta un obbligo nelle società moderne, così come resta però un dovere trovare sbocchi nel lavoro per tanti che vivono anche in condizioni di disagio.

Fuggire da questa sfida, offrendo qualche euro in spesa assistenziale per tenere buono il Mezzogiorno, si può trasformare nella peggiore disfatta culturale, oltre che economica, di questa fase. Il Mezzogiorno non ha bisogno di scappare con un biglietto vincente scippato dalle casse pubbliche, ma di creare le condizioni per lo sviluppo di un’etica del lavoro che sia da argine alle fughe di competenze.

Draghi ha dato una lezione sull’Afghanistan proponendo una strada alternativa al disimpegno e alla fuga degli Stati Uniti. Lo stesso standing, letteralmente la capacità di restare e farsi valere, dovrà dimostrare di averla, con il suo Governo, sulla sfida per la crescita del Mezzogiorno. Come ogni evento dell’agire umano sono i leader a indicare la strada. Se sarà quella della fuga o quella dell’impegno lo sapremo a breve.

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