“Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. L’acuta osservazione di papa Francesco è, come noto, riferita alla pandemia. Ma bene si attaglia anche alla fine ingloriosa del ventennio Usa in Afganistan, che poi sarebbe da considerare il trentennio che comincia con la prima guerra del Golfo contro l’Iraq del 1991. Entrambe le crisi richiamano la necessità di una riflessione che non sia solo di natura sanitaria o politica, ma anche e soprattutto antropologica e culturale.
La pandemia ha spinto infatti gli uomini pensanti a prendere atto della fragilità umana, che solo in maniera fallace si può sentire messa in sicurezza dall’esorcizzare in qualche modo la paura, o dal vaccinarsi (sacrosanto), o dalle stesse (sacrosante) azioni solidali. E quindi a interrogarsi, ad accettare di porsi domande radicali sul perché e sul come si fa a vivere non essendo onnipotenti.
Analogamente la trentennale vicenda iracheno-afgana (dell’America e dell’Occidente) potrebbe suggerire domande di analoga portata. Domande non solo di natura geopolitica o strategica (che è roba da esperti, non da bar sport), ma anche proprio su di noi, sul nostro essere uomini.
Gli Usa sono andati in Afganistan per sanare la ferita dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001: distruggere il terrorismo di al-Qaeda e insediare un governo democratico-amico. Con ciò riaffermare di fronte a tutto il mondo il primato egemone della superpotenza americana, garante essa ed essa sola della sicurezza e dei valori di libertà. Questo schema si era consolidato nel corso dei quarantaquattro anni tra la fine della guerra mondiale e la caduta del sistema sovietico, quando però il mondo era diviso in due sfere di influenza, e la competizione tra le due superpotenze non aveva e non poteva avere l’obiettivo dell’egemonia globale. Dopo l’89, con le teorie del Fukuyama della “fine della storia” e sventolando i vessilli del “Nuovo ordine mondiale” di Bush padre, l’ambizione dell’egemonia globale non ebbe più freni. Mosche bianche quelli che in quegli anni dissentivano. Lasciamo stare i Papi, che uno potrebbe dire “ovvio”. Rileggiamo il giudizio di un politico che più politico (e più realista) è difficile trovarne: Giulio Andreotti. In un’intervista a Tracce, pubblicata anche sul mensile Trenta Giorni (n. 12 – 1998), disse: “L’equilibrio del mondo e la prospettiva di una pace e di un ordine duraturi non possono reggersi sulla logica di chi sa di essere il più forte, e siccome ha la convinzione di essere il braccio destro di Dio e il più puro del mondo, allora fa quel che gli pare”.
Il segnale che il mondo non era quello sognato dal potere occidentale venne tre anni dopo con gli attentati dell’11 settembre 2001, ma appunto si pensò di sanare la ferita senza guardarci bene dentro; adesso, vent’anni dopo, è tempo di svegliarsi dal sonno.
E in questo senso, a me sembrerebbe utile considerare questo particolare aspetto: è andato in crisi il connubio tra egemonia e libertà, l’idea cioè che diritti umani e valori democratici siano inscindibilmente legati al primato economico-militare dell’occidente in un mondo monocentrico.
L’egemonia, come detto, è svanita. E bisognerà pur imparare a stare nel mondo con una logica multilaterale.
E la libertà, i diritti, i valori? I sacrosanti principi, che restano, sono stati presi e trascinati in una corrente impetuosa di relativismo e di nichilismo che ha prodotto anche diritti fasulli e valori effimeri: la pretesa di “esportare” questa roba è colonialismo. E poi: noi paladini della ragione non siamo esenti da manifestazioni e pulsioni irrazionali; paladini della libertà, non siamo esenti da personaggi e gruppi che coltivano l’intolleranza violenta, senza nemmeno l’onere di un’ideologia che almeno chiederebbe la fatica di conoscerla e studiarla. Insomma, non sempre e non in ogni campo possiamo coltivare la pretesa di insegnare. Intendiamoci: Usa e ed Europa sono i fari della libertà e della democrazia, e lo resteranno se si riscopriranno e rinvigoriranno le radici (cristiane, umanistiche, liberali) e si cureranno la banalizzazione dei valori e i fattori critici delle democrazie.
C’è un grande esempio storico che documenta la capacità creativa di questa impostazione: se riandiamo alla nascita della Comunità europea, vediamo un esempio di costruzione politica dove i principi di libertà, di pace e di cooperazione sono chiaramente i pilastri, mentre l’intenzione egemonica è del tutto assente. I valori erano buoni ed era buona l’educazione dei politici padri-fondatori.
Ecco, torna qui in primo piano, in tutta la sua potenziale ampiezza, la parola educazione: il ridestarsi negli uomini, tutti gli uomini (a maggior ragione i politici) di un “io”, per riecheggiare il titolo del Meeting di Rimini dello scorso agosto, ricco di vera stima per l’uomo e di passione per una giustizia reale, desideroso di agire costruttivamente ovunque agisca, a cominciare da dove si trova quotidianamente. È la Grande Opera, quella più utile all’umanità di oggi e alla pace.
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