Un anno fa, all’inizio della seconda ondata Covid, nessuno sembrava nutrire molti dubbi: all’uscita del tunnel tutto il “working” sarebbe stato “smart”, tutta “l’education” sarebbe migrata nel digitale, tutto il commercio sarebbe divenuto elettronico e così via. Perfino il lavoro “in fabbrica” – che non è affatto sparito né in Europa, né in America – pareva catapultato in avanti dalle innovazioni ormai mature di “Industria 5.0”,

“L’inizio della fine” dell’emergenza pandemica sta raccontando una storia diversa. Forse esemplare sul pianeta è quanto sta accadendo a New York: dove il lavoro fisico sembrava essere a rischio serissimo. Decine di migliaia di dipendenti e professionisti di banche, studi legali, media, online company e università parevano più o meno felicemente adattati alla diaspora-Covid: chi alla Hawaii, chi nelle campagne protette del New England, oppure fra le montagne esclusive o poco abitate del Colorado o in barca. Più banalmente: a casa propria, nel Queen’s o a Brooklyn. Tutti più o meno in grado di svolgere lo stesso lavoro che nelle torri di Manhattan. Tutti perfino pronti ad accettare una riduzione di stipendio o di guadagno in cambio di uno stile di vita flessibile, mai sperimentato prima e ora invece testato da un’intera “comunità” in ristrutturazione sociale. Perfino le autorità sanitarie – in Usa come nell’Ue in trincea contro la pandemia – hanno potuto fare “laboratorio” sulla transizione digitale dell’healthcare a distanza. La stessa manifattura robotica non ha potuto non accelerare: non in direzione di “distruzione di lavoro”, ma di passaggio alla “produzione intelligente”. Un mondo di progettisti, gestori e manutentori di sistemi industriali “da casa loro”.

La smart-apocalisse, invece, al momento non sembra essere pronta al debutto. A New York come altrove milioni di lavoratori stanno tornando in fabbriche e uffici. Probabilmente non è sgradito alla maggioranza i diretti interessati, ma certamente sembrano volerlo le aziende per le quali lavorano. E l’ordine generalizzato di rientro alla base da parte delle grandi corporation non era affatto scontato. Più prevedibile era il riflesso di governi e autorità pubbliche verso un “new normal” non troppo diverso dall'”usual”. Nel 2021 è comunque divenuto chiaro a tutti che se Manhattan – come centinaia di sue sorelle o cugine sul pianeta – si svuota dei suoi lavoratori, diventa una città fantasma, con tutte le luci spente (ristoranti e chioschi, negozi e alberghi, biblioteche e luoghi di culto).  Una Borsa come Wall Street – divenuta da tempo un “supercomputer” cui si connettono ogni giorno milioni di utenti sparsi sull’intero globo – è ancora lontana dal poter diventare una cattedrale automatizzata del deserto. E poi: il gigantesco patrimonio immobiliare concentrato attorno a Central Park vedrebbe azzerato il suo valore. E una municipalità come quella della Grande Mela – priva di gettito fiscale – imploderebbe. Eccetera. 

Commetterebbe però un grave errore chi pensasse di buttar via un esperimento socioeconomico collettivo come lo smart working con l’acqua sporca del virus. Chi pensasse di affidare solo al pur gigantesco successo tecnico-scientifico e politico-economico della controffensiva vaccinale la sicurezza contro nuove tempeste epidemiche. Il vero test comincia ora: il “learning by doing” (i modelli di analisi economica che misurano i guadagni di produttività del lavoro legati all’apprendimento individuale e collettivo) sollecita tutti a proseguire nell'”autovalutazione” di ciò che abbiamo imparato facendo smart working per mesi. Apparentemente soli nelle nostre case, in realtà assieme e senza confini come non mai. Tutte le Manhattan del mondo hanno il diritto-dovere di risorgere “come prima” . Ma nulla può essere, nulla sarà come prima. Ci sarà un nuovo lavoro “phygital”, anzi tutti i lavori vecchi e nuovi diventeranno un po’ fisici, un po’ digitali. Una sfida impegnativa, competitiva: ma non nuova per il genere umano. 

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