Le pale eoliche al confine tra Puglia e Campania o nell’entroterra siciliano sono una selva di torri bianche che, come una foresta pietrificata, lanciano verso il cielo le braccia fin oltre i cento metri di altezza. Un paesaggio inusuale e poco riprodotto, che da quasi un ventennio testimonia ciò che ha cambiato la storia di quei luoghi, come quando le raffinerie approdarono sulle coste italiane negli anni 60. 

È complesso maturare un’emozione chiara. Da un lato la gioia di sapere che quelle terre, spesso inutilizzate e senza grandi insediamenti, sono divenute produttive. Dall’altro l’innegabile effetto straniante che restituisce guardare un orizzonte distonico con i crini dei monti infissi di palificazioni e pianure e valli che perdono la loro naturale prospettiva. Il tutto a vantaggio degli innaturali punti di fuga offerti dalle pale alte molte decine di metri. 

È un compromesso necessario a rispondere alla fame di energia pulita che, nel corso degli anni, si è fatta insaziabile. La deregolamentazione dei primi anni duemila ha lasciato il campo a procedure complesse che sono state azionate, non senza sforzo, a vantaggio di neonati operatori locali che hanno utilizzato esperienza e competenza costruite sul campo, crescendo al punto da renderli leader di mercato. 

L’enorme massa di investimenti ha generato però rientri quasi nulli agli enti territoriali, se si escludono piccole mance, ed una sostanziale inazione degli uffici di controllo regionali che, scarsi a risorse, sono a volte divenuti mere succursali degli investitori. Nella sostanza questo ha consentito al Mezzogiorno di divenire il primo produttore di energia eolica e fotovoltaica rispetto al resto del Paese, e se l’Italia ha potuto raggiungere gli obiettivi europei in materia lo deve a quegli insediamenti. Ora che il mercato è maturo, i grandi gruppi finanziari stranieri, francesi in testa, ma anche i fondi pensione danesi e americani, mascherati da fondi di investimento, hanno puntato su queste cash-cow per pagare quanto dovuto ai loro beneficiari. Il mercato sta andando verso un sostanziale oligopolio nelle mani straniere e, al contempo, molti impianti, anche piccoli, sono di proprietà di società estere (anonime) che succhiano il denaro dal sistema Paese e lo trasferiscono in comodi paradisi. 

Tutto lecito, parrebbe, se visto da lontano. Ma quel che conta non è se esista o meno un controllo della Unità di informazione finanziaria o della guardia di finanza su questi flussi, quanto la questione se sia utile che un tale investimento, che si insedia in alcuni territori specifici perché altrove non avrebbe senso, possa continuare a generare profitto senza alcun vantaggio per il territorio che sfrutta. 

Su questi temi sono arrivati in ritardo Eni ed Enel, che solo di recente si sono affacciate sul mercato e stanno tentando di acquisire qualche posizione, dopo anni in cui il mercato delle rinnovabili era sostanzialmente snobbato. Eppure il flusso generato dai soli interventi incentivati è imponente, circa 12 miliardi l’anno secondo l’Enea, a cui aggiungere la quota di energia in libera vendita sul mercato che questi impianti generano. 

In sostanza il sistema Paese sta remunerando, con un premio di circa 120 miliardi nei prossimi anni, istituzioni straniere mascherate da fondi. Appartiene al passato questa scelta e di certo difficilmente si potrà intervenire, ma è altrettanto necessario che, all’alba del nuovo green deal, le norme nazionali impongano una diversa prospettiva agli investitori. Come noto, sole e vento sono appannaggio del meridione e le nuove installazioni guarderanno al Sud del Paese. Questa nuova stagione di investimenti va gestita e regolamentata. In primo luogo è essenziale che la leadership resti nelle mani di Enel ed Eni, per garantire un controllo nazionale predominante dei giacimenti di energia rinnovabile. Nella partita per lo sviluppo non è pensabile un disinteresse dei grandi player nazionali a vantaggio degli stranieri. 

In secondo luogo deve essere inserito un percorso di compartecipazione territoriale agli utili con percentuali minime fissate per legge, in modo da garantire agli enti territoriali un rientro certo da poter reinvestire. Infine, solo a queste condizioni, semplificare le procedure di autorizzazione per rendere spediti gli investimenti. Sono misure necessarie ed utili per dare al Mezzogiorno, ed al Paese, la possibilità di avere un vantaggio concreto e misurabile ed abbandonare la stagione che ha consentito ai danesi di pagarsi le pensioni grazie al vento pugliese pagato dagli italiani. 

Su questi temi Cingolani ha la possibilità di indirizzare le politiche energetiche, che non sono solo un tema tecnologico, ma soprattutto un grande banco di prova politico. Le energie rinnovabili vanno trattate come giacimenti di risorse la cui estrazione non può essere simile a ciò che accadeva con le sette sorelle del petrolio prima che Mattei rivoluzionasse le regole del gioco. 

Chi investe sulle rinnovabili nel Mezzogiorno deve avere un quadro normativo chiaro, autorizzazioni veloci, ma deve sapere che parte di ciò che produce è e deve restare un vantaggio per i popoli che quelle terre abitano, che sanno che una valle che perde la sua forma può divenire però una occasione di sviluppo per il territorio. 

Su questo Cingolani ed il governo hanno il dovere di imporre un svola storica e dare al Mezzogiorno il diritto di godere, in giusta parte, delle sue ricchezze invece che svenderle, per disinteresse, alla prima nave vichinga all’orizzonte.