Partecipando di recente a un’assemblea di “Banchi di solidarietà” mi è venuto in mente la piaga dei femminicidi. I “banchi” indicano gruppi di persone che insieme si adoprano per “dare da mangiare agli affamati” come puro atto di gratuità senza pretesa di ritorni di alcun genere. Capisco che a prima vista la cosa possa apparire alquanto bizzarra. Secondo me invece c’entra. Moltissimo.
Dunque, i femminicidi (la parola non mi piace): il fatto è che si muore, si muore molto in famiglia e dintorni: si muore ammazzati. Anzi ammazzate, perché le vittime sono soprattutto donne. Ne ammazza più il familiare che la malavita. Le cifre sono da paura: quest’anno, finora (dati ufficiali al 14 settembre) su 197 omicidi totali (mafia, rapine, liti, regolamenti, ecc.) sono state uccise 81 donne (quasi la metà del totale degli omicidi), di cui 70 in ambito familiare o affettivo, prevalentemente (50 casi) dal partner o ex partner.
E non è che questo sia l’annus orribilis del femminicidio. Da un bel po’ di tempo il trend è che cala il numero complessivo degli omicidi totali ma non quello dei femminicidi, che per contro in quota percentuale aumentano, così come aumentano gli omicidi-suicidi. Non mancano i casi in cui sono gli uomini ad essere uccisi da una donna, ma sono molto meno numerosi. Non c’è simmetria, insomma. Non saprei spiegarmi perché, comunque è un dato di fatto che va detto (primo per amor del vero, secondo per non essere (volutamente?) equivocato, come hanno fatto contro la brava Barbara Palombelli. Chiusa la parentesi.
Quanto ai moventi, non è facile formulare percentuali precise al decimale, per evidenti ragioni di complessità dell’animo umano e dell’intreccio possibile di concause. Quello che tuttavia statistiche ufficiali e studi seri mostrano è che il movente di natura economica è decisamente il meno frequente; più consistente il numero dei femminicidi commessi per l’incapacità o il rifiuto di tenere in carico una persona, di solito anziana, gravemente inferma e non autosufficiente; in netta prevalenza è il movente legato alla dimensione affettiva e amorosa: gelosia esagerata e patologica, legame possessivo, non accettazione della fine di una relazione e così via.
Si tratta dunque, in radice, di qualcosa che adultera, avvelena, corrode la dimensione più desiderabile e bella, e più umana, che tutti chiamiamo amore. Se questo qualcosa fosse una mancanza, e credo che lo sia, direi che si tratti di una mancanza di gratuità. Nelle forme estreme e patologiche questa mancanza, insieme a chissà quali altre cause e circostanze che tocca agli esperti indagare, porta sino all’assassinio.
Ma in dosi magari minori e più o meno tossiche, non è almeno un pericolo che tutti corriamo? Perché l’amore implica gratuità, e per viverlo ne occorrono dosi talora massicce. Ciò vale nelle relazioni familiari, amicali, anche sociali: voler affermare sé stessi, le proprie ragioni vere o presunte, e non l’altro nella sua libertà e unicità, minimo le depaupera e inquina.
Dunque, questione di gratuità: la stessa parola attorno a cui si discorreva e che si testimoniava in quell’assemblea di autori di gesti caritativi. Ma si tratta sempre della stessa cosa, o c’è una gratuità che vale per la parentesi della buona azione solidale ma non per l’amore? e poi per la famiglia, ma potremmo dire il lavoro… insomma la vita. Ecco, la gratuità di cui si parlava l’altra sera mi è parsa essere virtù umana e financo virtù civile necessaria per la vita famigliare e di coppia come nella società.
Si diceva infatti: portiamo un aiuto alimentare a chi ha bisogno senza mettere condizioni o pretese, non per sentirci bravi e gloriarci di noi stessi, non come primo passo per costruire un’organizzazione e un potere, ma come puro gesto di gratuità, come semplice “servire”. Il servire gratuito, si diceva ancora, si mostra nell’esperienza – se bene impostata e criteriata – corrispondente alle nostre esigenze elementari, quelle del “cuore”. Io mi affermo, e ne godo, affermando l’altro, amando la sua vita e il suo destino; quindi lo servo, lo sostengo per come è e nella condizione in cui è, nella fatica che fa, e questo è sacrificio, magari anche dolore, ma che ha un senso; e non pretendo nulla in cambio. Non sembrano fattori simmetrici e contrari ai principali moventi dei femminicidi?
Don Giussani definiva l’esperienza caritativa come educazione alla gratuità in tutti i rapporti. L’avevo presa come una giusta e bella formula. Siccome con il tempo e con la paglia maturano le nespole, cioè seguendo e facendo un’esperienza guidata si capisce un po’ di più – oggi mi sembra di percepirne meglio la pregnanza e la pertinenza con la nostra vita personale, familiare e sociale. La sua necessità.
Nelle tante iniziative di solidarietà presenti in Italia, a cominciare da quelle cattoliche – il bene più prezioso è – sarebbe – aiutarsi in questa educazione. È anche il modo migliore per collaborare davvero e non a slogan alla difesa e alla tutela delle donne.
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