Il primo pezzo del patto sociale che Draghi ha in mente è stato siglato con gli industriali italiani, che gli hanno consegnato la loro adesione piena ed una delega senza riserve. Il 6% di crescita del Pil atteso per il 2021, unito al 4% atteso per il prossimo anno, non possono essere messi in discussione. Solo così si potrà tornare ai livelli pre-pandemia e riemettere il Paese in piedi.
Bonomi ha esaltato la serietà del governo Draghi ed ha dato un supporto pieno alle idee del premier che, dal canto suo, ha fatto intendere che lo stile di governo che pratica ha antenati antichi. Non una riedizione buonista della seconda repubblica, ma una versione serena della prima. Con un’attenzione maniacale a sparire dalla scena quotidiana ed esercitare il potere reale senza necessità del consenso spicciolo dei social. Uno stile che piace a chi produce e che nella sostanza sta dando frutti inattesi. La solidità sul tema del green pass, il forcing sui ministri per chiudere i passaggi formali necessari ad applicare il Pnrr, la forza politica di imporre la fiducia su riforme importanti, come quella della giustizia, sono stati passaggi delicati superati con scioltezza.
Ma la vera novità dell’azione politica del Governo è proprio nel suo aver abbracciato la tradizione anche su temi meno popolari. Per anni, innanzi agli industriali, i premier hanno fatto a gara a presentare riforme e tagli delle imposte come obolo per il loro consenso. Spesso contrabbandate per riforme sistemiche, il taglio di qualche punto della pressione fiscale pareva l’unico interesse di chi fa impresa, con il Governo pronto a dare una mano ed a presentarsi come campione, leader se non addirittura esponente del mondo confindustriale. Questi atteggiamenti hanno lasciato un segno superficiale nella storia del Paese ed hanno, anzi, aumentando la diffidenza a posteriori proprio perché il mimetismo sociale, la frase “sono uno di voi” è spesso la strategia di chi non ha pensiero. Draghi ha chiarito di essere preoccupato di non far danni, intento nobilissimo, ed ha rimesso al centro un tema raramente avanzato in sede confindustriale dai premier in carica, ovvero le strategie per superare il divario territoriale e per far crescere il Mezzogiorno.
Draghi ha parlato agli industriali di una vera e propria condanna per chi vive nel Mezzogiorno. Una condanna ad avere minori opportunità di crescita economica e professionale, una condanna ad avere un sistema pubblico meno efficiente, una condanna a vivere in una condizione di disagio, che, come ha ben chiarito, non si supera con lo spontaneismo di pochi, l’inventiva o la capacità di andare avanti, ma solo ed esclusivamente con politiche serie di investimento. Risorse che ci sono e che vanno utilizzate in maniera consapevole con l’utilizzo dei fondi del Pnrr.
Ha tenuto a dire a chiare lettere che il 40% dei fondi andrà al Mezzogiorno e che saranno prioritarie le aree interne e lo sviluppo dell’economia del mare, proprio a partire dal Mezzogiorno come luogo di elezione per questo importante progetto di crescita del Paese. Ha messo al centro lo sviluppo dei porti, la logistica e le infrastrutture nel Mezzogiorno e ha rivendicato che queste politiche sono in piena sintonia con la visione europea ed ha, anche nel citare lo studio, abbracciato il progetto confindustriale sull’economia del mare.
Draghi ha recuperato la tradizione di attenzione alle fasce deboli della società ed ai territori più svantaggiati con coraggio e davanti alla platea sulla carta, meno interessata. E lo ha fatto ricordando la lezione dei grandi politici del dopoguerra, ovvero che si pensa agli ultimi quando si parla con i primi. Il tutto in un contesto di piena comprensione delle esigenze delle imprese e non senza ribadire quanto il suo Governo sia legato alla riuscita di questi progetti assieme a tutto il Paese.
I condannati del Mezzogiorno, per dirla alla Draghi, per la prima volta da decenni non si sono dovuti rivolgere ai meridionalisti del passato o agli studiosi che da anni denunciano queste condizioni, ma si sono visti rappresentare in pubblico da un premier nato sul Tevere e con studi a Boston. Uno che dei loro voti, i voti dei condannati, non sa che farsene, ma che ha chiaro quanto sia forte il nesso tra il Paese, il suo benessere e il recupero produttivo del Sud. Mai un premier è stato così netto, anzi spesso colpevolizzare il Mezzogiorno ha avuto una sua scuola di pensiero politica incarnata dalla premiership.
Ora tocca ai governanti locali, gli esponenti dei condannati, cambiare rotta. Se sapranno uscire dal ruolo di ossessionati dal consenso e al contempo i cittadini del Mezzogiorno sapranno guardare oltre, eleggendo politici genuinamente indisponibili a sfruttare il bisogno per avere voti, allora potrà partire. Serve una scossa anche a livello locale, una nuova strada che sappia intercettare non tanto i fondi, quanto la nuova disponibilità che viene dal Governo a dare un svolta al futuro di questi territori.
Se i condannati sapranno di esserlo, sapranno assumersi la responsabilità di avviare un percorso di crescita responsabile, potranno trovare, per la prima volta, chi li accoglie e li supporta, consapevole dei loro problemi. Non dovranno confrontarsi con i pregiudizi provinciali di chi, facendo la morale, sfrutta le debolezze del Sud per avere consenso. Sarebbe una vittoria per tutto il Meridione ed un primo passo per uscire dalla bolgia dei condannati e, piano piano, riveder le stelle.
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