Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) destina circa quattro miliardi di euro allo sviluppo delle politiche attive, ovvero al sistema di servizi per aiutare chi non ha un lavoro, o l’ha perso o lo vuole cambiare, a trovarne uno nuovo anche attraverso politiche di formazione e riqualificazione. Una cifra molto elevata che toglie ogni alibi a chi ha sempre sostenuto che il problema principale delle politiche attive in Italia fosse quello delle risorse.
Nell’ambito delle Politiche per il lavoro (missione numero 5, Inclusione e Coesione), il Piano riconosce poi nel sostegno all’occupabilità un obiettivo strategico prioritario delle politiche attive e un meccanismo indispensabile per sostenere la mobilità e le transizioni delle persone in un mercato del lavoro che diviene sempre più dinamico. La pandemia, infatti, non ha fatto altro che accelerare i processi di digitalizzazione e ristrutturazione del tessuto produttivo che rendono le transizioni sempre più una nuova normalità all’interno delle carriere lavorative.
D’altra parte, la prospettiva dell’occupabilità richiede un approccio innovativo e una riprogettazione delle politiche e dei servizi per il lavoro verso una logica di tipo sussidiario-cooperativo, in grado di valorizzare la partecipazione di istituzioni pubbliche, private e del non profit in tutte le fasi di definizione, progettazione e attuazione delle politiche di sviluppo del lavoro. In quest’ambito, le agenzie private per il lavoro possono offrire un contributo importante, in quanto custodi privilegiati di una conoscenza ampia e capillare delle caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro. I servizi privati, insieme a quelli pubblici, dovrebbero poi partecipare, anche in una logica cooperativa e di rete, nelle fasi di implementazione dei programmi di politica attiva valorizzando quanto più possibile le proprie aree di competenza e di specializzazione.
In una logica di co-produzione dei servizi, anche le imprese dovrebbero svolgere un ruolo chiave. Il loro coinvolgimento fin dalle fasi iniziali dei programmi di politica attiva, infatti, è indispensabile per poter individuare in maniera tempestiva e puntuale i fabbisogni di nuove conoscenze, competenze e abilità che di volta in volta possono emergere. La partecipazione diretta delle imprese è quindi una precondizione per la progettazione di interventi formativi e di riqualificazione che siano coerenti con le reali esigenze del mercato.
D’altra parte alcune esperienze internazionali suggeriscono una maggiore efficacia degli interventi di politica attiva che prevedono la collaborazione tra diversi attori. Le reti pubblico-privato consentono alle diverse istituzioni di condividere informazioni e risorse strategiche, che a loro volta permettono di cogliere i fabbisogni di competenze e tradurli in set di competenze e abilità da formare e/o rafforzare. La collaborazione pubblico-privato consente anche di definire meglio gli obiettivi dei programmi e trovare soluzioni innovative per poterli raggiungere. Da questo punto di vista, il mercato del lavoro rappresenta un terreno privilegiato dove sperimentare una fattiva collaborazione tra pubblico-privato, in grado di valorizzare le competenze ed expertise di ciascuno, in una logica di sostegno alla creazione del bene comune.
Tutto questo è possibile, però, se ci si lascia alle spalle l’impianto normativo che ancora oggi governa le politiche attive in Italia, profondamente concentrato sull’attore pubblico ossia sui Centri per l’impiego che non intermediano più del 3% dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I Centri per l’impiego vanno sicuramente potenziati, non solo con nuovo organico ma soprattutto con un organico formato e competente, che conosca la realtà dei mercati del lavoro locali e i processi di riqualificazione professionale. Costruire, come sembra, il nuovo piano Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) per le politiche attive sull’impianto del Jobs Act, con una forte centralizzazione delle competenze a livello nazionale e allo stesso tempo identificando come soggetto principale i Centri per l’impiego significa oggi rischiare di sprecare le importanti risorse che avremo a disposizione. Occorre invece scommettere su ecosistemi territoriali che coinvolgano un numero più ampio possibile di soggetti, perché come detto anche le imprese (e gli esempi della gestione degli esodi di Brescia e Bergamo degli ultimi mesi sono un esempio) possono fare politiche attive ma anche le scuole, l’università e gli attori delle relazioni industriali.
La partita quindi è collettiva perché l’urgenza è ampia, giocarla da soli non aiuterà nessuno.
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