Presentando la Nadef, ieri, Mario Draghi ha sottolineato il primo effetto della ripresa in corso: il debito pubblico – enormemente gonfiato dalla recessione-Covid – accenna a rientrare. “È la conferma che l’exit strategy è una sola e si chiama crescita”, ha detto il Premier. Il recupero del Pil  – che nel 2022 è atteso a un vigoroso +6,1% –  crea occupazione e reddito. La crescita crea le premesse fiscali per una rinormalizzazione delle finanze pubbliche: già appesantite prima della pandemia da un debito fuori linea.

Lavoro e fisco sono dunque i due concreti terreni di gioco della politica economica, indirizzata sui binari del Pnrr. E annunciano due partite di cui il Premier ha già chiaramente delineato regole e programma. La prima è quella della competitività dell’Azienda-Italia. Draghi ne ha parlato pochi giorni fa all’assemblea di Confindustria, facendo leva sull’entusiastica accoglienza per chiedere subito “un nuovo patto” fra le parti sociali. Imprese e organizzazioni sindacali sono chiamate ad articolare quel ritorno del metodo concertatorio che nei fatti ha già  risolto la strettoia su “vaccini & green pass” in fabbrica e negli uffici. È una cornice che risale direttamente alla stagione inaugurata a palazzo Chigi dal maestro di Draghi – Carlo Azeglio Ciampi – all’inizio degli anni ’90. 

Era un’Italia diversa: ancora dominata dalla forte presenza dello Stato in economia – oggi ridimensionata dalle privatizzazioni in molti settori strategici – e da grandi gruppi industriali, molti dei quali oggi non esistono più. Era un’Italia assai simile a quella di oggi nella sua rincorsa incerta e faticosa all’integrazione economico-monetaria nell’Ue e forse anche nell’instabilità politico-sociale. Draghi è il primo a sapere che ogni “nuova concertazione” possibile avrà oggi protagonisti molto diversi: le 20mila imprese (soprattutto medie, “tascabili”) che generano il grosso dell’export Made in Italy; e un’Italia del lavoro assai più qualificata professionalmente (anche nella Pa)  e assai meno protetta, nel settore privato, da contratti di lavoro rigidi e per questo meno coordinata dal sindacalismo tradizionale. E un pezzo di Italia che trent’anni fa era su un lato del tavolo concertatorio, oggi è migrato sull’altro: quello dell’imprenditorialità e del lavoro autonomo.

Il primo impegno assunto da Draghi come tendenziale “arbitro” di un ritrovato spirito di concertazione fra grandi corpi intermedi è quello di agevolare il confronto eliminando indebiti ostacoli fiscali alla competitività (anzitutto il “cuneo” che disturba entrambi i fronti dei bilanci aziendali). Il fisco si profila d’altronde come nome di una distinta partita, in cui il Governo non è più “super” o “intra partes” rispetto alle parti sociali. Si ritrova invece a dover “concertare” con altre categorie sociali e direttamente con le loro rappresentanze politiche.

La riforma del catasto è lo strumento operativo scelto dal Governo per promuovere questa particolare “concertazione”: che ha la finalità di reperire risorse utili ai molti fabbisogni correnti e strutturali della finanza pubblica nazionale in Europa. È una riforma che il Mef di Daniele Franco ha – non scorrettamente – presentato come “di sistema”: la fiscalità della proprietà immobiliare, in Italia, attende davvero da decenni di essere riordinata. E Draghi è stato attento a fissare subito un solo, fondamentale paletto: la riforma non comporterà extra-prelievi (nei fatti “patrimoniali” sulle prime case degli italiani). 

Nel resto del catasto pubblico c’è però molto altro: da cui l’erario si aspetta di recuperare una parte delle molte decine di miliardi di evasione tributaria. Ed è questa la “concertazione” che si annuncia più impegnativa per l’esecutivo: che dovrà muoversi su un crinale stretto fra le compatibilità politiche dell’equità fiscale e quelle macroeconomiche dettate soprattutto dalle scadenze del Recovery Plan. Una via tortuosa e accidentata: ma non impossibile da percorrere fino in fondo. Certamente per Draghi.

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