Stop al virus o stop ai dati?

C'è chi ritiene non debbano più essere diffusi i dati giornalieri sul Covid. Ma il problema sono i numeri o il modo con cui vengono comunicati?

Sta crescendo il numero di osservatori che ritengono che la diffusione giornaliera di dati sul Covid-19 generi confusione, ansia e insicurezza e sarebbe pertanto preferibile limitare la disponibilità dei dati a delle informazioni settimanali. L’argomento è già alla attenzione del Comitato Tecnico Scientifico e l’eco dei commenti e delle possibili proposte è arrivato sul tavolo del Governo.



Non v’è dubbio che la disponibilità di dati sull’andamento della pandemia è fondamentale, ed è anche fondamentale che ci sia una messa a disposizione delle informazioni con una tempistica diversificata: le informazioni giornaliere, immediate, utili a costruire serie di dati per chi è in grado di elaborarli e interpretarli adeguatamente (si veda, ad esempio, l’informazione giornaliera disponibile presso questo sito, curato dagli esperti della Associazione Italiana di Epidemiologia, AIE) o per chi è in grado di assumere decisioni o ha bisogno di fare azioni rapide e di breve respiro; quelle settimanali, messe a disposizione ad esempio dall’Istituto Superiore di Sanità attraverso rapporti che hanno una impostazione più strutturata, meno immediata, rispondono a esigenze temporali meno urgenti, e contengono anche (almeno iniziali) commenti e riflessioni, e sono le informazioni che oggi il Governo utilizza per prendere le decisioni, ad esempio, sulla colorazione delle regioni; ma anche quelle con periodicità superiore (si pensi, ad esempio, ai dati di mortalità resi disponibili quasi mensilmente da Istat), che ovviamente rispondono ad altre esigenze e si indirizzano verso utilizzi più ragionati, più di studio e ricerca, più di lungo periodo.



Perché rinunciare a una parte di questo panorama informativo, e in particolare perché omettere la comunicazione dei dati giornalieri? Sono i dati stessi che generano l’ansia collettiva e le altre forme di disagio che abbiamo citato o è la modalità con cui avviene la loro comunicazione e diffusione che deve essere messa in discussione?

Facciamo un semplice esempio. Si potrebbe comunicare così: oggi 11 gennaio nel nostro Paese sono stati registrati 220.532 nuovi positivi al Covid, inoltre sono stati osservati 294 decessi e 185 nuovi accessi nelle terapie intensive. Vi è anche da osservare che oggi è martedì, che i dati di oggi sono superiori a quelli di ieri e che sappiamo che è dall’inizio della pandemia che al lunedì non vengono trasmesse tempestivamente tutte le informazioni. Oppure si potrebbe comunicare così: oggi i casi positivi sono aumentati rispetto a ieri del 217%, gli accessi in terapia intensiva del 162% e i decessi sono aumentati del 130%. È chiaro dove sta il problema?



Per Lucia Bisceglia, presidente dell’AIE, la tempestività e la costanza dell’informazione sono fondamentali sia per intercettare i segnali di allerta che il virus manda (ed è quindi sostanziale che i tecnici possano seguire l’andamento giornaliero della pandemia), sia per trasmettere all’opinione pubblica la sensazione che nulla venga nascosto (la richiesta di maggiore trasparenza da più parti invocata). Semmai, sempre per la Presidente AIE, si può discutere della modalità con cui viene effettuata la comunicazione, e cioè pur mantenendo giornaliera la messa a disposizione dei dati si può valutare se pubblicare un bollettino per il pubblico. Ma, aggiungiamo, in un mondo aperto come quello di oggi e invaso dalla globalizzazione informativa (internet e tutti i tipi di social), dove tutti hanno potenzialmente accesso a tutto, ha senso distinguere tra ciò che può essere reso disponibile agli esperti e ciò che può essere reso disponibile al pubblico? Ci sembra oggettivamente una strada poco percorribile.

Per Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Sanità, è “utile la comunicazione puntuale e trasparente di tutti i dati“, però questa comunicazione deve essere “accompagnata da un’adeguata interpretazione che aiuti i cittadini a orientarsi meglio“. Va bene, ma chi deve assumersi il compito della “adeguata interpretazione che aiuti i cittadini a orientarsi meglio“? Gli esperti? Pur non volendo incorrere nell’errore di fare di ogni erba un fascio, abbiamo visto tra di loro dirsi di tutto e il contrario di tutto a partire dagli stessi dati: non sono stati certo un buon esempio per aiutare i cittadini a orientarsi meglio. Allora i media? Forse il problema principale nasce proprio da qui: lasciamo perdere il tema degli evidenti errori tecnici di comunicazione derivanti dalla non adeguata competenza di fronte a un tema difficile e specifico, ma l’esigenza della ricerca della notizia a tutti i costi porta spesso all’esagerata enfasi, alla spettacolarizzazione e alla sovraesposizione mediatica dell’informazione per cui è stata proposta anche una definizione patologica (infodemia): occorre che i media si muovano nella direzione di fare una informazione utile e corretta senza corride verbali.

Qualche commentatore preoccupato va ben oltre e si chiede se con la proposta di limitare la disponibilità dei dati giornalieri si voglia coprire qualcosa (ma cosa?) o si stia pensando alla necessità di qualche azione censoria (a quale scopo?) perché i dati e l’informazione significano anche potere: non crediamo a questo atteggiamento vessatorio e vorremmo evitare che insieme alla categoria dei No-Vax si debba inventare anche la categoria dei No-Dat.

Negando i dati giornalieri si riduce l’ansia? No, non sono i dati giornalieri in sé che creano ansia: semmai è la confusa e litigiosa proliferazione comunicativa che va messa sotto osservazione. Insieme a una progressiva perdita di capacità critica e disponibilità ad approfondire, che, a prescindere dalla pandemia, non lascia presagire nulla di buono.

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