Il posto in cui si nasce e si cresce condiziona la vita di ciascuno. La promessa della globalizzazione degli anni 90 era quella di poter cambiare questa sorte e costruire la propria vita ovunque si volesse. Gli anni successivi hanno dimostrato che era poco più di un’illusione e sono riapparsi i muri delle ideologie fondamentaliste, i confini e i nazionalismi che hanno reso il mondo meno largo ed accogliente. Costringendo ciascuno a legarsi in modo quasi indissolubile alla propria latitudine di nascita. Questa pandemia ha ristretto ancora di più i confini, limitandoli ad un perimetro di pochi metri quadri, pari alla casa che si vive. Non tutte le case sono uguali, non tutte le latitudini sono quelle giuste. Ma quel tempo in cui la caduta del comunismo e l’apertura delle frontiere sembravano aver allargato il mondo, ci insegna che se la geografia non cambia possono cambiare i tempi e le opportunità che crea.
Ora che sembriamo vivere tempi inusuali e deprimenti ci pare che intorno a noi ci sia un mondo più claustrofobico e pericoloso. Ma ci sono stati tempi molto peggiori. A patto di indovinare il posto in cui nascere, un italiano del 1898 dopo i primi cinquant’anni avrebbe, nell’ordine, fatto la prima guerra mondiale, vissuto il biennio rosso, sarebbe maturato sotto il fascismo e si sarebbe ritrovato nella seconda guerra mondiale, senza risparmiarsi la fame postbellica fino al boom economico, che arrivo però qualche anno dopo. A tornare indietro di cinquant’anni si stenta a trovare anche una sola di quelle tragedie, per dimensione.
Sono i tempi che fanno la storia delle generazioni, non la geografia, ed i tempi li costruisce la politica. Può essere può o meno semplice vivere in un luogo, o allontanarsene, a secondo dei tempi che si vivono. Ed a questo che bisogna lavorare. Alla possibilità di annullare i limiti che la nascita geografica crea, in modo da consentire a ciascun individuo di essere se stesso ed esprimere il meglio. Un passato così lo abbiamo avuto a periodi. Potevi nascere schiavo in oriente e divenire ricco a Roma sotto Augusto o restare per generazioni servo della gleba in un feudo degli Appennini sotto Federico.
È così che possiamo leggere questa fase. Come una enorme bolla temporale che dobbiamo far esplodere per aprire a nuovi minuti, ore e giorni e che rendano questo presente, che ci tocca vivere, un passato davvero remoto.
E spesso i tempi hanno i loro segni, i loro interpreti che divengono motori di questi cambiamenti più per la loro simbolica capacità di rappresentarli che per la loro concreta opera.
A breve uno degli scranni più fluidi del Paese andrà riempito. La presidenza della Repubblica non era considerata gran che fino a Cossiga, ma da Napolitano in poi, sommo presidente e grande interprete della presidenza come istruzione politica, quel ruolo ha assunto un valore sempre più rilevante. Non solo per la saggezza del suo interprete, ma per la sua evidente necessità in un quadro politicamente sempre più fluido.
Serve ora che la presidenza vada ad una soggetto che sappia cogliere questo spirito. Che non provenga da alcun luogo fisico del Paese in particolare e tantomeno da un luogo culturale, ma che abbia la percezione della necessità di cambiare i tempi per uscire con forza da questa cronologia impastata di mancanza di futuro. Che sappia mutare la geografia del Paese cambiando i tempi che viviamo, restituendo un concetto di unità nazionale non basato sui confini ma sull’adesione ad un progetto; e che recuperi il Mezzogiorno trasportandolo da un’eterna e perpetua rappresentazione degli anni 80 a una modernità che salti decenni e si metta al pari.
Che sia donna o uomo importa il giusto, ma che si sia mostrato consapevole nella sua carriera di quanto contino i tempi che la politica è in grado di dettare ai cittadini, è essenziale.
Non sarà, infatti, nei prossimi anni una presidenza fatta di nastri e celebrazioni. Con il sistema proporzionale le maggioranza e i presidenti del Consiglio sono destinati alla fragilità e dovranno avere un saggio pilota che li guidi, appunto, dettando i tempi.
Non sperare in questo, ed augurarsi che sia un uomo di un parte piuttosto che di un’altra è una limitazione del pensiero politico e della funziona alta che i grandi elettori sono chiamati a svolgere. Certo, le misere valutazioni di opportunismo incidono sempre come l’egoismo di parte e la boria arrogante dei potentati temporanei. Ma se tutto ciò vince è allora che il tempo si ferma e che le geografia torna ad essere essenziale, un condanna (per dirla alla Draghi quando parla di Mezzogiorno) e gli egoismi e le inadeguatezze diventano essenziali vantaggi per pochi e condanna per tanti.
Un presidente che sappia guidare il riprendere a scorrere del tempo e che sappia interpretare il Paese dei tempi nuovi facendo andare avanti, molto in fretta, quelli del Sud affinché la geografia torni ad essere una variabile che non incide sulla nostra storia. Sennò sarà un futuro pieno di passato, un corsa indietro che, come ci dice la storia, è sempre possibile. A volte probabile. Dipende dalla politica. Come sempre.
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