Dietro la Dad, la nostra crisi

La Dad mostra l'emergenza educativa di un familismo che trasforma l'esperienza educativa nelle pretesa di fornire tutto ciò cui dovremmo avere diritto

Non ci libereremo facilmente della didattica a distanza. Questo non perché l’epidemia di Sars-CoV-2 sia destinata a imperversare ancora per molto, né perché sia una metodologia all’avanguardia e didatticamente efficace (tutt’altro): la Dad è destinata a non lasciarci perché il suo utilizzo permette ai genitori di non sentirsi manchevoli nei confronti dei figli.

I centralini e le mail delle scuole italiane, in questi giorni di rientro, sono particolarmente bollenti: tutti vogliono la Dad, e la vogliono immediatamente, “senza che mio figlio perda inutilmente un altro giorno di scuola”, come se l’esperienza dell’assenza da scuola non fosse essa stessa scuola. Stare assenti implica seguire con più attenzione circolari e registro elettronico, sentire i compagni per verificare che si sia ben compreso quanto fatto in classe, affrontare l’incertezza di un argomento non totalmente capito perché difettoso di spiegazione.

Questa esperienza di indeterminatezza, necessaria per comprendere che esiste qualcosa di più prezioso della performance scolastica e per affinare human skills di primaria grandezza, è oggi impedita da famiglie che pensano che il compito di un genitore sia quello di “non far mancare niente ai propri figli”: più è grande lo spazio di tempo che intercorre tra la manifestazione, da parte di un figlio, di un bisogno ritenuto primario e la sua soddisfazione, più è grande – agli occhi del genitore – la mancanza di cui è giusto essere rimproverati, mancanza che costituisce una diminutio della propria genitorialità.

Così si scrivono mail alla scuola di domenica pretendendo che qualcuno le legga e che il giorno dopo alle otto siano presi provvedimenti conseguenti; si contestano le regole che – ad esempio – prevedono che se un ragazzo ha il Covid e la febbre a quaranta non si attivi nessuna didattica a distanza (chiedendo seriamente che lo studente possa seguire!); si chiede alla scuola ogni informazione di tipo sanitario circa tamponi e decorso della malattia attribuendo agli istituti funzioni di Asl (e magari arrogandosi il diritto di indicare che cosa l’istituzione debba fare rispetto alla classe con uno o due casi di positività): nell’epoca forse più culturalmente ostracizzante per la famiglia, assistiamo ad un familismo che trasforma l’esperienza educativa da “accompagnare dentro tutto” a “dare tutto”, con la paura – in fondo non detta – di perdere tutto.

Perché è questo il punto che sta dietro a questi strani giorni: il terrore della morte, il terrore della fine, che poi diventa il terrore dell’errore, il terrore della mancanza e il conseguente tentativo di tenere insieme tutto, affidando la colpa sempre agli altri, alla scuola, allo Stato, ai “cattivi” che non ci vogliono far fare il bene che meritano i nostri figli.

È questo il vero dramma educativo dei tempi nostri: aver interrotto l’amicizia con Uno che è più genitore di te, con Uno che non perde niente e che è pronto a restituirti tutto. È in forza di una tale amicizia che cento anni fa le persone facevano otto-dieci figli nella consapevolezza che in pochi sarebbero arrivati all’età adulta: mettevano in conto anche la possibilità di morte del figlio da quanto erano grati della vita.

La Dad ha scoperchiato il vaso di Pandora della crisi della genitorialità, dell’emergenza educativa che stiamo affrontando. Al punto che, a livello educativo, per non perdere nessuno, tutto quello che sappiamo fare è coltivare e promuovere un profondo senso di colpa, l’altra grande parola che sta all’origine della cancel culture e di tanta parte della colonizzazione ideologica che stiamo sperimentando.

Ma qui il discorso si fa ampio e quanto detto è già abbastanza. Il resto, per il momento, è un’altra storia.

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