La grande domanda sotto il cielo di mille conflitti

Noi uomini del XXI secolo siamo come in un deserto estremo nel quale la necessità di significato è un grido che riempie il giorno e la notte

Il vertice a Ginevra tra Russia e Stati Uniti è fallito. Washington non cede, vuole che l’Ucraina possa essere messa sotto l’ombrello della Nato, Mosca non lo consente. Putin non rinuncia a una possibile annessione e sembra che si sia tornati alla Guerra Fredda. In effetti, quarant’anni fa in questo periodo l’Unione Sovietica incoraggiò il colpo di Stato in Polonia per cercare di evitare qualsiasi tipo di apertura. Si può però obiettare che non conviene esagerare nei parallelismi geostrategici, politici, culturali ed esistenziali. Attualmente il mondo non è dominato da due potenze che si confrontano. Inoltre, gli anni ’80 posero le basi per la vittoria del mondo libero e dei valori dell’uomo occidentale, un decennio terminato con la caduta del Muro. Qualcuno ricorda che quelli erano “tempi gloriosi”, non come quelli attuali, dove non abbiamo l’energia vitale per intraprendere alcuna lotta. Quante volte abbiamo ripetuto come una salmodia che il nostro sistema di vita è in declino, che l’indifferenza e il vuoto lo dominano totalmente! Ci lamentiamo perché le ideologie dell’autodeterminazione personale, il soggettivismo e l’emotivismo stanno distruggendo ciò che rimaneva della nostra tradizione migliore. 

In realtà, almeno esistenzialmente, quarant’anni fa la situazione non era molto differente da quella attuale ed era già molto avanzato il processo di dissoluzione. La forza dei patti geostrategici, politici e di alcune espressioni culturali faceva sembrare che il mondo forgiato dal diritto romano e dalla “tradizione giudaico-cristiana” rimanesse in piedi. Poi è arrivata la “grande euforia” per la vittoria del mercato e del mondo libero. A mano a mano che il XX secolo terminava e dopo il tragico inizio del XXI con gli attentati dell’11 settembre, le alleanze politiche di coloro che volevano difendere i valori occidentali, e togliere protagonismo allo Stato, si sono fatte sempre più “sporche”. Giustificate dalla causa, perché si pensava che “facendo cultura e facendo  politica” in un certo modo si potessero conservare spazi di civiltà e libertà. In realtà, ciò che è successo è che buona parte delle élite del ’68 avevano cambiato posizione, non erano più progressisti ma liberali, ma continuavano a usare lo stesso metodo di prima. Ciò che contava era il numero, la forza dei movimenti sociali, la capacità di influire sulla classe politica. Ciò che contava era occupare spazi e, malgrado tutto ciò che è successo, molti vanno avanti ancora così. Come se le guerre culturali fossero di grande utilità, come se la forza apparente delle comunità fosse in grande di affrontare il vuoto. C’è chi continua perfino a pensare che certe alleanze politiche del passato abbiano senso.

Nonostante le apparenze, quarant’anni fa il fiume dell’indifferenza scorreva già. Pochi lo videro e in questo siamo sì come negli anni ’80. Fu in quegli anni che il filosofo Gilles Lipovetsky pubblicò L’era del vuoto. Sorprende la precisione con la quale descriveva già allora la metamorfosi vitale avvenuta. Il filosofo francese parlava di un “deserto senza principio né fine”, nel quale non era possibile vibrare con niente: “Se almeno potessi sentire qualcosa!: questa frase traduce la nuova disperazione che colpisce un numero maggiore di persone”. “Nel presunto distacco, uomini e donne continuano ad aspirare all’intensità emozionale delle relazioni privilegiate”. Il paradosso è che “ognuno esige di essere solo, più solo, e nello stesso tempo non si sopporta se stessi”. Alla fine domina l’indifferenza, l’anemia emozionale, di chi “non si aggrappa a niente, non ha certezze assolute, niente lo sorprende e le sue opinioni sono suscettibili di rapidi cambiamenti”.

Niente si era, si è, salvato dal “maremoto”. “Qui, come altrove, il deserto cresce: il sapere, il potere, il lavoro, l’esercito, la famiglia, la Chiesa e i partiti hanno già smesso di funzionare come principi assoluti, nessuno crede più in loro”. Lipovetsky evidenziava che la risposta “dei partiti, dei sindacati”, perché non aggiungere anche la Chiesa!, nel loro sforzo di combattere l’indifferenza, “per fare partecipare, educare, interessare (…) produce l’apatia della massa”. Vedeva già che le forme tradizionali di risposta culturale, politica e comunitaria erano parte del problema e non della soluzione.

È facile riconoscersi nell’acuta descrizione del francese, malgrado il tempo che è passato. Ci sono però due cose che gli sono sfuggite. Si sbagliava quando affermava che “la necessità di significato è stata spazzata via e l’esistenza indifferente al significato può svolgersi senza intensità”. Si sbagliava quando assicurava che “l’io si è trasformato in uno specchio vuoto”.

Non c’è più apparenza dietro la quale nascondersi. Non ci sono parole, sistemi culturali, ideologie, né progetti sociali che possano vincere l’apatia. Solo un deserto estremo nel quale la necessità di significato è un grido che riempie il giorno e la notte. Il grido chiede: “Perché soffro? Perché sono ignorante?/ Cellule in una grande oscurità/ Qualche macchina ci ha fatto/ è il tuo turno ora di chiederle, di tornare a domandarle: Per che cosa esisto? Per che cosa esisto?” (Louise Glück). Uno specchio vuoto non chiede con tanta insistenza.

Quarant’anni fa c’era la Guerra Fredda. Adesso abbiamo un conflitto in ogni angolo del mondo, questo sì, sotto un cielo pulito, nudo. Non c’è rifugio, è un cielo sotto il quale risuona un grande grido, una grande domanda. Conviene non rispondere alimentando l’apatia.

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