Mi avventuro in un parallelo sicuramente azzardato, a partire da due temi di attualità, che mi sembra aprire a una considerazione.
Primo elemento. Settimana scorsa, Mattia Martini ha scritto di “employability”: quell’insieme di competenze, hard e soft, che rendono un lavoratore risorsa ricercata in un certo ambito di mercato. Ottimizzare la propria employability è diritto e dovere di ciascuno, una sorta di garanzia sul futuro: rende credibile fare un ulteriore passo di carriera, o rivendersi altrove, nel caso il percorso attuale si inceppi. E promuoverla è responsabilità anche del datore di lavoro. Senza questa valorizzazione della persona, che miri alla sua continua evoluzione e realizzazione, non esiste l’impresa sussidiaria.
Purtroppo, nella realtà dei fatti, ancora poche imprese in Italia hanno un piano strutturato di crescita professionale dei propri dipendenti. Investiamo il 10% meno della media Ocse in formazione per dipendente (e circa la metà del Giappone), nonostante un’urgenza valutata il 20% sopra la media (il 51% dei nostri posti di lavoro attuali sono a rischio-automazione, e solo il 62% della forza lavoro ha competenze linguistiche e matematiche sufficienti, sotto media).
Perché questa poca attenzione? Perché lo sviluppo dell’employability implica costi effettivi (training aziendali; rotazioni in diverse aree, contesti e geografie; corsi accademici e para-accademici; conferenze; investimenti di tempo) e costi-opportunità (distrazione dall’immediata mansione quotidiana; appetibilità per altre aziende, concorrenti e non, che proveranno a sottrarre elementi di valore a chi li ha formati). Quel che esiste, è spesso demandato alla proattività del dipendente, e vale spesso solo per i colletti bianchi.
Come sempre, multinazionali e blue-chips fanno la differenza: perciò, oltre a pagare di più e a fare curriculum, offrono anche un percorso credibile e strutturato di aumento dell’employability: Non è dunque sorprendente, che i veri talenti vogliano andare a lavorare lì. E questo scava un solco di potenziale sempre più profondo tra grandi imprese e PMI (che cumulano il 79% dei lavoratori italiani).
Secondo elemento. Il Covid, uno dei nostri argomenti più popolari (“Green Pass” è il termine più cercato su Google.it nel 2021, con 2 milioni di ricerche al mese, e un picco di 6 milioni in giugno). Siamo il quarto Paese più vaccinato al mondo (202 dosi somministrate ogni 100 abitanti e 83,4% della popolazione totale con almeno una dose al 15 gennaio 2022), e di questo non si può che dar merito a Draghi e Figliuolo, che hanno decisamente invertito la rotta (participio passato di “rompere”, declinato al femminile) di Conte-Arcuri.
Eppure, proseguiamo un’asfissiante propaganda di tensione e terrore; quotidianamente comunichiamo un numero di morti altamente superiore ad altri Paesi (probabilmente a causa di una più prudenziale definizione di morte per/con Covid); ci crucciamo incessantemente della sempre più esigua minoranza No-Vax, con toni sempre moraleggianti (le prime pagine di tutte le testate sono zeppe di storie sempre più assurde di NoVax deceduti o di parenti NoVax pentiti), fomentandone costantemente la gogna pubblica (si rilegga la “Storia della Colonna Infame”).
Possiamo gloriarci di un atteggiamento più virtuoso degli altri (non si capisce, in verità, perché il resto dell’Ue dovrebbe essere significativamente meno attento al benessere fisico dei propri cittadini), ma il “miracolo Italia”, come è venuto, è stato già anche dimenticato.
Di fatto, questa decisione bipartisan di tener sempre alta la tensione pone un grave svantaggio competitivo alle nostre imprese (innanzitutto nel settore del turismo, che induce circa il 13% del nostro Pil) e si scontra con il pragmatismo di altri: Per volare dagli Usa all’Italia, è necessario un tampone negativo (costo: tra i 120-250 dollari a test), mentre per volare dagli stessi Usa in Germania (sempre Ue, Monaco è molto più vicina a Milano di Roma) basta la prova di ciclo vaccinale completato (il ciclo è – come noto – gratuito). E quindi, l’Italia, ottava economia al mondo per Pil, anche nel 2021, dopo l’annus horribilis 2020, cresce più di sole 2 tra le prime 8 economie del mondo: Germania (che però ha avuto crescite molto più sostenute negli ultimi anni) e Giappone (il cui Pil vale comunque 2.5x quello dell’Italia).
Che cosa accomuna queste due aree, apparentemente completamente separate? Il non approccio alla conoscenza.
Una vera società sussidiaria e democratica è quella dove ci si cura dell’educazione del popolo, dove cioè tutti hanno la possibilità di imparare criteri solidi di lettura della realtà, e sono accompagnati nell’interpretazione delle informazioni che ricevono, per formarsi un giudizio (un’informazione senza criterio interpretativo è solo una slavina).
Su questo, non stiamo ancora lavorando – e il Governo dovrebbe pensarci quanto prima:
– poche aziende e pochi politici perseguono strategicamente l’employability, promuovendo competenze flessibili e modellando profili generalisti multifunzione. È molto più comodo focalizzarsi sulla divulgazione e la magnificazione di competenze tecniche immediate (che, per definizione, rischiano di chiudere una persona in uno status e, se non continuamente aggiornate, diventano presto obsolete). Anche qualche ministro non resiste alla tentazione celebrativa della – pur sacrosanta – scuola tecnica, a discapito dell’istruzione liceale (vero fiore all’occhiello della nostra scuola)
– In Italia, nessun politico si è ancora mai davvero preso la responsabilità (come tentò di fare in un paio di occasioni – a inizio pandemia – Angela Merkel) di comparire in TV e sui canali digitali e, accompagnato da scienziati competenti e sobri, di spiegare per filo e per segno, al meglio delle conoscenze attuali, i rischi della malattia, le implicazioni su salute fisica e mentale, la composizione effettiva dei vaccini e perché pensiamo non siano nocivi nel lungo termine. In modo veramente da ricominciare – scommettendo ancor più fortemente, come la Germania, sul potere liberante del vaccino.
La gazzarra continua di virologi, infettivologi, immunologi, epidemiologi e veterinari – che Draghi, va detto, ha contribuito a ridurre drasticamente rispetto al caos di Conte – crea invece solo confusione, perché dà in pasto informazioni senza criteri. E fomenta la contropropaganda No-Vax.
Questa lacuna dice da un lato di una limitata capacità di rischio e presa di responsabilità, dall’altro di un’ultima preservazione dello status-quo attraverso l’asimmetria delle informazioni.
Solo con una seria educazione del popolo, in tutti gli aspetti della vita, si può pensare a una società in continua evoluzione e sussidiaria, dove non si debba temere di essere schiavi del rumore dei Social (io ne sono un fan – grande opportunità, ma bisogna saperli usare, ne parleremo) delle fake-news e dei Montagnier. E dove si possa arrivare anche a una maggiore pacificazione sociale, basata sul dialogo e non sullo scontro manicheo tra buoni e cattivi (vedi corsa al Quirinale). Certo, ci vuole una classe dirigente che guardi lontano e sia disposta a mettere in discussione gli assetti di potere attuale.
Che la Politica prendesse posizione su un progetto organico di “ampio accesso e messa a terra della conoscenza”, come vera leva di liberazione del popolo, sarebbe una grande novità. Già a partire dal Pnrr, di cui bisognerebbe ricominciare a parlare seriamente (come questo giornale spesso fa).
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI