Hanno provato anche solo ad immaginare cosa volesse dire somigliargli con la stessa intensità con cui lo pensavano. E hanno fiutato al volo che la loro fede, la loro piccola fede, non bastava a vincere l’abitudine di dir “Credo” senza metterci dentro il Cristo vivente della storia: “(Signore), accresci in noi la fede” chiedono i discepoli al Rabbì. Se è vero che ogni tanto gli dichiaravano guerra (nascosta) per le sue accelerazioni in materia di cuore e amore, è altrettanto vero che, quando ne fiutavano quella loro vertigine, avrebbero fatto l’amore con quelle prospettive con la stessa intensità con la quale imbastivano guerra al Rabbì.
Che, a pensarci bene, con loro deve avere saputo usare la passione e la dolcezza con la stessa intensità. Non era un pregio naturale, era un’arte che aveva affinato nel tempo, transitando di cuore in cuore: “L’amore è intensità non patteggiamento” avrà pure detto qualche volta alla sua gente se, un bel giorno, quei medesimi gli chiesero d’intensificare la loro fede, non di patteggiare una soluzione di comodità. “Aumenta la nostra fede“: detto da loro, tra l’altro, che si pensavano impresari del sacro, riservando al loro Cristoddìo il ruolo marginale di spettacolo più eccelso tra quelli contenuti nel loro cilindro magico di formule.
È l’intensità, insomma, a fare la differenza: e si percepisce, sempre. Tanto che basterebbe avere un pizzico d’intensità di fede (più che di conoscenza della dottrina) per incitare un gelso, famoso per le sue radici profonde, a traslocare in mezzo al mare: “‘Sràdicati e vai a piantarti nel mare’ ed esso vi obbedirebbe“. E inizieremmo a pensare che nella nostra personalissima storia d’amore con Dio il “per sempre” non si riferisca al tempo e alla durata, ma all’intensità degli istanti vissuti con Lui. Non sono delle cime in materia di gratuità quella ciurma di amici che gli vanno dietro, ma almeno tentano di far diventare la loro fede sempre un po’ più storia, un po’ meno favola. Tanto che, vedendoli immaginare quel gelso con le valigie in mano, dopo millenni di storia sacra e ferita vien da chiedersi se ci saranno ancora degli uomini e delle donne capaci di sostenere l’intensità di uno sguardo come quello di Cristo. Al punto da supplicare di aumentare la fede mentre prima, invece, la si riteneva sufficiente per definirsi degli innamorati. E Cristoddìo, di fronte alla loro domanda scappa, la ignora, la irride? “Che cosa vuoi che io faccia per te?” (Mc 10,46) continua a porgere come risposta.
Il segreto, comunque, resta quello di sempre: raccontare e ascoltare con la stessa intensità. E poi, a missione compiuta, appartarsi come il più inutile degli oggetti: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare“. Il che non significa dire che non siamo serviti a nulla eccetto che ad intralciare la strada: figurarsi se il Cristo direbbe così di qualcuno, fosse anche il più incorreggibile della truppa. “Siamo servi inutili” (cfr Lc 17,5-10) nel senso che, dopo aver fatto quanto dovevamo fare, non ci siamo arricchiti di null’altro che della gioia di avere fatto fino in fondo il nostro dovere: una lavatrice di biancheria, un gesto di pietà, una sedia aggiunta, una frottola in meno, un servigio dettato da un’urgenza giunta improvvisa e inedita. Esistenze costruite sulle fondamenta di gesti gratuiti, sconosciuti, anonimi. Intensi, però. E la meraviglia di ciò che chiamiamo amore abita proprio nella sua intensità, nella sua potenza, non nella sua durata: un amore tiepido, pur a lunga conservazione è soltanto sopravvivenza. “Per tutto il tempo – lungo o breve non importa –: perché la vita si misura dall’intensità con cui si vive” (L. Sepulveda).
Non sarà mai inutile un servizio reso, un soccorso offerto, una mano tesa: resta il tentativo più vertiginoso d’assomigliare a Cristo. Che, al netto di nessuna pretesa, sceglieva d’eclissarsi dopo aver fatto il suo dovere: per non arricchirsi d’un solo grazie. Alla fine tra il vento e la tempesta è solo questione d’intensità.
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