La lezione di Scalabrini a Ue e Turchia

Papa Francesco ha canonizzato Giovanni Battista Scalabrini, patrono dei migranti. L'altro non è una minaccia, ma un cuore da accogliere

Schifosa. Peccaminosa. Criminale. Non è esattamente un felpato linguaggio curiale quello che papa Francesco ieri ha usato nell’omelia pronunciata sul sagrato di San Pietro per la canonizzazione del “vescovo dei migranti”, Giovanni Battista Scalabrini e del coadiutore salesiano Artemide Zatti. Schifosa, peccaminosa e criminale è, per il pontefice, l’esclusione dei migranti, “non aprire le porte a chi ha bisogno”, “mandarli via, ai lager dove sono sfruttati e venduti come schiavi”.

Difficile non vedere in queste parole un atto di accusa rivolto ad atteggiamenti e azioni in vario modo e con diversa intensità messi in campo da singoli Stati e dall’Unione Europea. Le strategie decisamente prevalenti hanno come obiettivo la securizzazione. Prendiamo l’accordo Ue-Turchia, o anche il memorandum Italia-Libia, sottoscritto nel 2017 tra il governo Gentiloni e il governo Serraj: lo scopo è far trattenere i migranti fuori dall’Europa, magari poi ipocritamente ignorando gli orrori dei campi di detenzione e comunque ben remunerando i loro gestori. Europa unita nel chiudersi, ma non nel condividere l’onere dell’accoglienza e della gestione di clandestini e richiedenti asilo che sbarcano in Italia lungo la rotta mediterranea o entrano in Grecia con la rotta balcanica: a chi gli tocca, se la sfanghi, questa la ratio trentennale degli accordi di Dublino. Infine, anche le misure di accoglienza continuano ad essere, dopo tanti anni, emergenziali, mentre dovrebbero essere strutturali. Basti pensare che i movimenti migratori internazionali coinvolgono da tempo oltre 250 milioni di persone ogni anno, fino a raggiungere la cifra di 281 milioni lo scorso anno.

Ma con tutto ciò sarebbe comunque troppo comodo buttarla solo in politica, cattiva politica peraltro, vedendo solo problemi che – accogliendo o respingendo – “altri” debbano risolvere senza sentirsi personalmente e socialmente chiamati in causa.

Papa Francesco ha sottolineato che per il vescovo Scalabrini, che fondò due Congregazioni per la cura dei migranti, una maschile e una femminile, nel comune camminare di coloro che emigrano non bisogna vedere solo problemi, ma anche un disegno della Provvidenza: “Proprio a causa delle migrazioni forzate dalle persecuzioni – egli disse – la Chiesa superò i confini di Gerusalemme e di Israele e divenne ‘cattolica’; grazie alle migrazioni di oggi la Chiesa sarà strumento di pace e di comunione tra i popoli” (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899).

Visitando più volte le comunità di emigrati italiani in America, Scalabrini incontrò chi già aveva fatto i soldi e chi, i più, era nella miseria e indifeso, e per prima cosa sentì “i cuori palpitare all’unisono col mio”. Evidente che la parola cuore non indica qui una piega sentimentale, o una semplice emozione, ma la sostanza stessa dell’essere persona, con eguale valore e dignità insopprimibili e con eguale bisogno di realizzazione e di felicità. Se non si comprende che l’altro è “un bene per me”, lo si sentirà sempre e soltanto come una minaccia o come un pollo da spennare. Scalabrini arrivò a giudicare la migrazione come “sacro diritto umano”.

Il riconoscimento reciproco spinge per sua natura a mettersi insieme, fa desiderare di “camminare insieme”, come Francesco ha rimarcato nella sua omelia commentando la pagina del Vangelo che racconta dei dieci lebbrosi, che appunto camminavano insieme, furono guariti da Gesù e… E poi uno solo, il più “straniero”, e per giunta eretico perché samaritano, tornò indietro a ringraziare Gesù. La gratitudine non era “per un semplice gesto di cortesia – ha detto Francesco – ma l’ inizio di un percorso di riconoscenza: egli si prostra ai piedi di Cristo: riconosce che Gesù è il Signore, e che è più importante della guarigione ricevuta”.

Scalabrini ce l’aveva chiaro questo, tanto che (lo ha ricordato Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 6 ottobre, citando un articolo di Raimondo Manzini sull’Osservatore romano del 1980) non esitò a rinunciare ai cavalli “perché il vescovo può andare benissimo a piedi”) e a sostituire il calice d’oro e pietre preziose con uno di ottone, donando ai poveri il ricavato dell’una e dell’altra vendita. Perché dai diamanti e dalle incazzature non nasce niente, dalla gratitudine nascono i fior.

Ma non si creda che il vescovo dei migranti si limitasse alla carità spicciola. Anzi. Proprio in forza del riconoscimento del valore dell’altro e della condivisione, egli arrivò anche a vedere il l’emigrazione come una importante risorsa per il progresso sociale e la crescita economica. A una condizione, aggiungeva però: “Che essa sia ben orientata”. Non è la stessa sfida di oggi?

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Difficile non vedere in queste parole un atto di accusa rivolto ad atteggiamenti e azioni in vario modo e con diversa intensità messi in campo da singoli Stati e dall’Unione Europea. Le strategie decisamente prevalenti hanno come obiettivo la securizzazione. Prendiamo l’accordo Ue-Turchia, o anche il memorandum Italia-Libia, sottoscritto nel 2017 tra il governo Gentiloni e il governo Serraj: lo scopo è far trattenere i migranti fuori dall’Europa, magari poi ipocritamente ignorando gli orrori dei campi di detenzione e comunque ben remunerando i loro gestori. Europa unita nel chiudersi, ma non nel condividere l’onere dell’accoglienza e della gestione di clandestini e richiedenti asilo che sbarcano in Italia lungo la rotta mediterranea o entrano in Grecia con la rotta balcanica: a chi gli tocca, se la sfanghi, questa la ratio trentennale degli accordi di Dublino. Infine, anche le misure di accoglienza continuano ad essere, dopo tanti anni, emergenziali, mentre dovrebbero essere strutturali. Basti pensare che i movimenti migratori internazionali coinvolgono da tempo oltre 250 milioni di persone ogni anno, fino a raggiungere la cifra di 281 milioni lo scorso anno.

Ma con tutto ciò sarebbe comunque troppo comodo buttarla solo in politica, cattiva politica peraltro, vedendo solo problemi che – accogliendo o respingendo – “altri” debbano risolvere senza sentirsi personalmente e socialmente chiamati in causa.

Papa Francesco ha sottolineato che per il vescovo Scalabrini, che fondò due Congregazioni per la cura dei migranti, una maschile e una femminile, nel comune camminare di coloro che emigrano non bisogna vedere solo problemi, ma anche un disegno della Provvidenza: “Proprio a causa delle migrazioni forzate dalle persecuzioni – egli disse – la Chiesa superò i confini di Gerusalemme e di Israele e divenne ‘cattolica’; grazie alle migrazioni di oggi la Chiesa sarà strumento di pace e di comunione tra i popoli” (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899).

Visitando più volte le comunità di emigrati italiani in America, Scalabrini incontrò chi già aveva fatto i soldi e chi, i più, era nella miseria e indifeso, e per prima cosa sentì “i cuori palpitare all’unisono col mio”. Evidente che la parola cuore non indica qui una piega sentimentale, o una semplice emozione, ma la sostanza stessa dell’essere persona, con eguale valore e dignità insopprimibili e con eguale bisogno di realizzazione e di felicità. Se non si comprende che l’altro è “un bene per me”, lo si sentirà sempre e soltanto come una minaccia o come un pollo da spennare. Scalabrini arrivò a giudicare la migrazione come “sacro diritto umano”.

Il riconoscimento reciproco spinge per sua natura a mettersi insieme, fa desiderare di “camminare insieme”, come Francesco ha rimarcato nella sua omelia commentando la pagina del Vangelo che racconta dei dieci lebbrosi, che appunto camminavano insieme, furono guariti da Gesù e… E poi uno solo, il più “straniero”, e per giunta eretico perché samaritano, tornò indietro a ringraziare Gesù. La gratitudine non era “per un semplice gesto di cortesia – ha detto Francesco – ma l’ inizio di un percorso di riconoscenza: egli si prostra ai piedi di Cristo: riconosce che Gesù è il Signore, e che è più importante della guarigione ricevuta”.

Scalabrini ce l’aveva chiaro questo, tanto che (lo ha ricordato Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 6 ottobre, citando un articolo di Raimondo Manzini sull’Osservatore romano del 1980) non esitò a rinunciare ai cavalli “perché il vescovo può andare benissimo a piedi”) e a sostituire il calice d’oro e pietre preziose con uno di ottone, donando ai poveri il ricavato dell’una e dell’altra vendita. Perché dai diamanti e dalle incazzature non nasce niente, dalla gratitudine nascono i fior.

Ma non si creda che il vescovo dei migranti si limitasse alla carità spicciola. Anzi. Proprio in forza del riconoscimento del valore dell’altro e della condivisione, egli arrivò anche a vedere il l’emigrazione come una importante risorsa per il progresso sociale e la crescita economica. A una condizione, aggiungeva però: “Che essa sia ben orientata”. Non è la stessa sfida di oggi?

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