I poveri li avrete sempre con voi. Se l’ha detto lui… Ma occhio a non abituarsi all’annuale report sulla povertà. Che sia di Istat, Caritas o qualsivoglia. In Italia una persona su dieci non arriva alla terza settimana. Trattasi di 5,8 milioni di individui, 2 milioni di famiglie. Risulta che chi è nato in famiglia povera, quasi sempre resta povero (e ignorante: con basso livello di istruzione). Addio ascensore sociale, quello per cui un tempo i figli degli operai si diplomavano e diventavano impiegati o tecnici.
Va bene, ragioniamo pure di reddito di cittadinanza (che raggiunge metà dei bisognosi e a quanto pare un po’ di furbacchioni) e puntiamo sul contrasto all’abbandono scolastico e al mismatching, cioè il disallineamento tra competenze e posti di lavoro che lascia questi scoperti e i giovani disoccupati. Mettiamo in campo decisamente le politiche attive per il lavoro, e diamo un altro lavoro ai poveri navigator che non servono a nulla. Ri-orientiamo la formazione scolastica in funzione delle professioni del futuro prossimo e non del passato remoto.
Ma c’è dell’altro.
Che cosa dice la Caritas
La Caritas ha verificato un quadro in cui emergono non solo i fattori strutturali della povertà – educativa, lavorativa ed economica –, ma anche quelli soggettivi – sfiducia, perdita di autostima, debolezza dell’io in solitudine. E don Virginio Colmegna, nell’intervista al Sussidiario, ha sottolineato “la necessità di interventi e presa in carico che vadano oltre gli indispensabili aiuti materiali che… non appaiono sempre risolutivi”. E ha indicato due elementi chiave di possibile riscatto: 1) a cura della relazione di fiducia con accompagnamenti prolungati nel tempo; 2) l’inserimento attivo nella comunità, costruendo reti di sostegno e reciprocità.
“Vanno rimessi al centro – ha detto sempre Colmegna – i temi della solidarietà e della giustizia sociale, non l’assistenzialismo fine a sé stesso ma qualcosa che rimetta in discussione lo stato di questa società”. Scartata la via della lotta armata rivoluzionaria, non resta che l’applicazione della cultura sussidiaria. La quale, a differenza delle ideologie, può suggerire modelli cavati dall’esperienza vissuta e non dalla semplice elaborazione teorica. Insomma, storie particolari possono essere illuminanti. Sarà anche roba minima, ma… vera. Tipo le due che seguono.
Dal Ciao alla Uno
Il marito l’ha mollata con un bimbo da prima elementare. Ha un lavoro a metà tempo in un’azienda che fa le pulizie in ospedale. All’alba. A quell’ora, col treno, ci vuole una vita. Un volontario del Comune le porta il bimbo a scuola, prima elementare, poi trova una famiglia che prende il bimbo a mo’ di affido. La donna lavora bene, ottiene un avvicinamento per il lavoro. Sono cinque chilometri in bici. Col bel tempo ok, con pioggia e neve…
Primo passo, comprare un Ciao, mitico motociclo della Piaggio. Usato: Il ciclista meccanico del paese ci mette del suo, con soddisfazione, per sistemarlo bene e tenere basso il prezzo. Motorizzata, la giovane donna può guardarsi in giro per un lavoro a tempo pieno. Ci sarebbe, ma più distante. L’investimento principale è per prendere la patente, tirando la cinghia e accettando l’aiuto della famiglia amica e di un Banco di solidarietà.
Viene assunta, e nei giorni precedenti si allena, con l’assistenza del padre della famiglia amica, a parcheggiare davanti alla ditta, per non fare brutte figure. Un amico della famiglia le vende volentieri una Uno vecchiotta ma in perfetto stato, a prezzo minimo. La signora va autonomamente al lavoro, lavora bene, e non sarà mai coinvolta nel taglio del personale che pure ci sarà.
Esaurita la Uno, si comprerà a rate un’utilitaria con i suoi soldi, e poi un’altra. Il figlio non brilla negli studi, ma adeguatamente aiutato e orientato, farà una scuola professionale ben scelta, e troverà impiego nell’allestimento e manutenzione degli ascensori. Sono cambiate, in meglio, tante cose, prosegue l’amicizia con la famiglia degli inizi e con gli amici degli amici.
Quando si dice l’educazione
Alla scuola media di un paese approda una ragazzina albanese. L’insegnante è di quelle che creano un rapporto con gli alunni e viene presto a sapere che la famiglia è molto povera, venuta in Italia per curare una grave malattia del papà. A scuola segue con cura la ragazzina; e appoggiandosi a un Banco di solidarietà, offre un aiuto alimentare alla famiglia. La ragazzina si appassiona allo studio (cosa vuol dire sapere insegnare!), le viene voglia di andare avanti. Arriva a diplomarsi, nel contempo facendo lavoretti per portare a casa qualcosa. Fa la cameriera in un ristorante pizzeria. È brava e quando cambia la proprietà del locale diviene la responsabile della gestione. È diventata adulta, è una persona in grado di affrontare la vita, avendo sperimentato di non essere un nulla isolato.
Roba minima, tre lezioni
Questa roba minima dice tre cose. La prima, che il bisogno lo si comprende non in una classificazione a priori ma in un incontro e in una condivisione. Questo implica un cambiamento di sé, prima di tutto.
La seconda, che tutto ciò può avvenire in una compagnia che condivide una dimensione ideale, senza la quale non c’è popolo.
Terzo, questa cultura sussidiaria vissuta non può non suggerire orientamenti nelle politiche di welfare, altrimenti destinate a… lasciarci tutti senza ascensore. Alla fine della fiera: la carità sarà sempre necessaria (copyright Ratzinger). Il Vangelo di Gesù ci aveva visto giusto.
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