Era da un po’ che si sentiva strangolare dentro. Fuori lo malmenavano con profezie funeste: “Attento, tarchiatello, che non tutte le ciambelle vengono con il buco. Non dimenticare che tutti i nodi arrivano al pettine!” Che a Gerico lui fosse uno di quelli che usavano arricchirsi alle spalle altrui, era cosa risaputa da tutti: era “quello della dogana”, l’uomo al soldo dell’amministrazione romana. Uno dei tanti doganieri che portava sulla coscienza il peso di estorsioni, malversazioni e ladrocini vari. Di più: era uno di quelli che, di nascosto, collaborava con i nemici della Palestina, li sosteneva più che poteva.
Ragione per cui, in città, dire che la sua persona era invisa è usare un eufemismo troppo caritatevole: era odiato, si era reso fastidioso, dai più era sicuramente odiato. Ragione per cui il giorno in cui Cristoddìo è dato di passaggio per Gerico, c’è da crederci che lui, come ogni buon politico, abbia tentato di mettersi in prima fila, per crearsi la sua passerella di fronte a quell’Uomo di cui il mondo parlava.
È altrettanto plausibile pensare, però, che nessuno, quel giorno, gli abbia concesso un millimetro di spazio per arrivare in prima fila. Eppure, anche se nessuno lo sapeva, erano settimane che lui, dentro, avvertiva una sorta di martellamento che pareva gli scoppiasse il cuore. Non gli fan spazio? Non gli concedono di salire su nessuno dei tetti delle loro case? Chissenefrega: «(Zaccheo) corse avanti e, per riuscir a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passar di là». Stavolta Zaccheo sfida il ridicolo: e la gente che lo vede fare quelle pazze acrobazie quasi quasi scoppia a ridere.
Non Cristoddìo che, come niente fosse, dal mezzo di quella folla aggancia lo sguardo di Zaccheo come la più elementare delle manovre: «Quando giunse sul posto, Gesù alzò lo guardo». Era il rendez vous che il Cielo da tempo aveva preventivato: la navicella spaziale di Zaccheo si era avvicinata terribilmente alla stazione orbitante del Cristo. Fino al punto di agganciarsi del tutto: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
Più che alle minacce del popolo, Zaccheo era terrorizzato che Cristo passasse per la sua città senza che lo vedesse. Per troppo tempo sentiva di aver vissuto come in una camera buia, lamentandosi della difficoltà di trovare una luce. Finiva le sue giornate che non gli riusciva di portar a termine la sua più grande impresa: sfuggire a se stesso. Un giorno, invece, decise ad aprire le finestre dell’anima: tutto cambiò d’aspetto. D’allora non temette più che Cristo non passasse per la strada: temeva assai di farsi scappare l’occasione migliore per rimettere in sesto l’anima sua. E mentre adocchiava l’imbocco del sicomoro, comprese che la vera tragedia non sta nella sofferenza di un’anima, ma nel fatto che l’anima ignori la vicinanza della felicità.
La fretta di Cristoddìo – «Scendi subito!”» – fu come un bacio per Zaccheo: “Il Signore ha fretta per me, che son stato uno screanzato finora: roba da non crederci!” pensò tra sé mentre scendeva a rotta di collo dal sicomoro. Il fatto è che chi non ha urgenza vuol dire che non brucia: il Cielo sta male nel vedere quell’uomo ridotto così, uno straccio alla mercè di sé stesso. Ed entrato in casa sua, fa testamento da vivo: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Redigere un testamento in punto di morte, anche se giusto, è sempre una tardiva riparazione dettata dall’imminenza della morte. Scriverlo da vivo, invece, è salvarsi: «Oggi, per questa casa, è venuta la salvezza». Lo sapeva anche prima, Zaccheo, di essere un ladro: ma adesso lo sa in una maniera così diversa che non può più continuare in quel suo mestiere. Mentre prima riusciva persino a vantarsene!
La gente, fuori, borbotta. Pace all’anima loro: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare, a salvare ciò che era perduto» (cfr Lc 19,1-10). È un avviso di lavori (ancora) in corso: non esiste anima alla cui porta Dio non abbia bussato decine di migliaia di volte.
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