Il Governo non ancora formato – ma guidato “in pectore” da Giorgia Meloni, Premier designata dal voto – lascia già filtrare alcuni orientamenti di politica economica, in transizione di fatto con l’esecutivo Draghi (in sé non è una cattiva notizia e appare anzi uno stimolo forte in direzione di una riforma costituzionale: un Paese del G7, nel pieno della Terza guerra mondiale, mostra di non poter più essere governato con tempi e riti decisi alla fine della Seconda, ottant’anni fa).

Il primo input circostanziato – nell’ambito delle discrezionalità interna di cui resta titolare il Governo di un paese Ue – riguarda il ridimensionamento del cosiddetto “superbonus”: che verrebbe tagliato dal 110% al 70%. In attesa di conoscere le tecnicalità (anzitutto l’ambito di applicazione e la durata del “nuovo superbonus”), l’ipotesi appare interessante sia nel merito che nel metodo.

L’agevolazione è stata varata da un esecutivo politico (il Conte-2, Pd-M5S) con una motivazione in sé poco discutibile: la necessità di uno stimolo fortissimo all’economia, investita dalla recessione-Covid. Un’azione di politica finanziaria e industriale a favore dell’edilizia è il più classico degli strumenti: la leva fiscale viene utilizzata per rilanciare fatturati, redditi e occupazione di una pluralità di imprese, di ogni dimensione, in ogni area di un Paese. E la transizione ecologica scelta dalla Commissione europea in carica già prima di pandemia e crisi geopolitica come direttrice strategica assieme alla digitalizzazione ha certamente conferito una dignità di principio al “superbonus 110%” deciso dall’Italia. Che però ha fallito almeno due prove capitali.

La prima è stata l’applicazione legale degli incentivi: gli abusi (penali) accertati a cantieri ancora aperti sono già una frazione importante dell’enorme monte-bonus finora accumulato a carico dell’erario (oltre 40 miliardi). E poi il decollo del 110 ha avuto effetti inflazionistici interni già prima che si materializzassero quelli prodotti a livello globale dal Covid e quindi dalla “guerra dell’energia”.

Il Governo istituzionale di Draghi – pur essendo sostenuto anche da forze politiche favorevoli al superbonus – ha dovuto quindi intervenire con decisi colpi di freni normativi. E se il Premier e il titolare del Mef avessero potuto agire in autonomia “tecnica” l’avrebbero probabilmente abolito. Da un anno, comunque, il “superbonus” viaggia di fatto a velocità ridotta: anche perché il sistema bancario ha cessato l’assorbimento di crediti fiscali.

Il Governo Meloni – di centrodestra – segnala ora di voler riformulare il “superbonus”, anche se senza strappi bruschi. Anzi: tentando un possibile riordino stabilizzatorio dell’intero “arsenale” dei bonus edilizi. Il mantenimento delle agevolazioni indicherebbe da subito un’attenzione forte del nuovo esecutivo per il mondo delle imprese: che resta “grande elettore” del centrodestra. Una riduzione di più terzo del bonus raccoglierebbe d’altronde la raccomandazione tecnica di Draghi di sgonfiare una “bolla fiscale” ormai carica anche di illegalità inaccettabili. Se nei suoi primi cento giorni il “nuovo superbonus” riuscisse ad avviare una seria modernizzazione della tassazione sulla casa (originariamente prevista dalla “delega fiscale” collegata al Pnrr) l’esecutivo Meloni segnerebbe un primo punto forte sul terreno del ritorno del primato della politica e dell’efficienza delle istituzioni democratiche.

Un test gemello – prevedibilmente negli stessi tempi di debutto della nuova “administration” a Palazzo Chigi – riguarderà il Reddito di cittadinanza: molto meno trasversale del superbonus sul piano politico-economico. Le regole del gioco – politico e tecnico – non appaiono però molto diverse.

Più ancora del superbonus, il Rdc è stato deciso da M5S, la forza politica che aveva vinto le elezioni 2018. Al termine della legislatura gli elettori hanno ora premiato l’opposizione: e la cancellazione del “reddito” è stata parte integrante della piattaforma di Meloni. “L’agenda Draghi” (cioè le “prediche utili” dell’ex Oresidente Bce) è sempre stata sul tema più articolata e problematica. Già all’epoca del primo colpo recessivo, il futuro Premier italiano ripeteva (da macroeconomista) che “non è il momento di togliere ma di dare” alle persone in difficoltà. E la stessa Ue (anche se talvolta in modo contraddittorio e strumentale) si è sempre detta favorevole all’allineamento dell’Italia con gli altri Paesi-membri sul terreno del Reddito di cittadinanza. Che però nella sua versione “1.0” in Italia si è rivelato un costosissimo veicolo di puro assistenzialismo.  Per questo il pPemier designato è tutt’altro che solo nel pensare che il “reddito” vada profondamente ridisegnato tagliando zone di abuso già ampie e recuperando una reale funzione di inserimento efficace nel mercato del lavoro di chi non ha reddito perché non ha occupazione e soprattutto formazione.

Un terzo test è appena più in là, anche se probabilmente  sarà affrontato in termini conservativi dalla manovra 2023. È il piano Industria 4.0, che dal 2017 ha cambiato più volte nome e – a dispetto dei buoni risultati conseguiti su molti fronti – ha sofferto più del dovuto l’essere figlio politico dell’allora Premier Matteo Renzi e del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (entrambi allora nel Pd).

Le priorità dell’Azienda-Italia in questo momento sono la sicurezza energetica e il suo costo. Ma – anche sul terreno della digitalizzazione produttiva, in un segmento forte del Made in Italy – ogni strappo appare vivamente sconsigliabile.

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