Il cristianesimo inizia sempre da una catastrofe: Dio, ogni qualvolta scende in terra, scende per rimettere mando al mondo, per raddrizzare il mondo. E così facendo, Dio incontra l’anima lungo la strada di un mondo disordinato: l’uomo, a ben guardare, oggi non cerca più Dio per l’ordine che indovina nell’universo, bensì per il disordine che avverte dentro se stesso: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi” gli gridano dietro quei dieci uomini dalla pelle squamata come serpenti. Il loro flagello è la lebbra, ma all’esterno non accade mai nulla che non sia già accaduto dentro a un’anima.

Questo loro avvicinarsi al Cristoddìo di passaggio è tutt’altra cosa da un’ingenua gita turistica: è una tragica inchiesta, un’inchiesta sulla storia che si portano cucita addosso. Perché quando i granai si bruciano – sia che essi custodiscano grano, sogni o quant’altro, non fa differenza – l’anima si trova improvvisamente costretta a guardare dentro di sé, a scendere come un palombaro dentro gli abissi dello spirito. E costoro, dieci di numero, s’avvicinano al santo Guaritore esattamente per questo, per vedersi riparata la pelle che, riordinandosi, a ritroso riordinerà anche tutto ciò ch’è conseguenza: l’autostima, la reputazione della gente, la frequentazione di chi s’è allontanato per paura, disprezzo, disgusto.

La coscienza di essere malati è il primo sintomo che si sta per guarire: nessun lebbroso è mai bello agli occhi del mondo. Per questo, pure mantenendosi a debita distanza, si recano direttamente da Dio: perché tutti i lebbrosi son belli agli occhi di Dio. Come tutti i figli lo sono agli occhi di mamma.

Non fanno fatica a trovare Dio: la tragedia tutt’ora in corso è che l’uomo ha paura di essere trovato da Dio. Per questo non vorrebbe mai avvertire quel bisogno naturale d’un salvatore. Li guarisce, dunque: per Lui, che ha l’arte della riparazione cucita nello sguardo, è poco più che un gioco da ragazzi. “Andate a presentarvi ai sacerdoti” dice loro tacendo quello che sta per accadere dentro loro: “Mentre essi andavano, furono purificati“. Non sempre sono necessari i farmaci: la fede nella guarigione – “Se vuoi tu puoi guarirmi!” – lo è ancora di più.

Basta lebbra, strappata via la vergogna, riparata quella pellaccia che tanto disgusto provocava per le vie della città: essere peccatori resta la nostra più grande miseria, il marchio di fabbrica del passaggio del maiale di Lucifero nel sangue della nostra dinastia. Sapere di esserlo, però, resterà sempre la nostra più grande speranza: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!“. Detto e fatto: cadute loro le squame di dosso, ritornano nuovi di zecca. Se, poi, alle ferite dai il giusto tempo di guarire, succederà quello che ci succedeva da bambini, e ci piaceva assai: che togliere la crosticina diventa piacevole. Pensando a ciò ch’è stato.

La maggior parte dei cristiani, una volta saziate le preghiere, ha una capacità infinita di prendere le cose per scontate: “Son proprio curioso di vedere se basterà loro essere stati guariti o se, invece, vorranno il meglio per loro” avrà pensato il Cristo inseguendoli con lo sguardo mentre correvan dai sacerdoti. Di dieci “uno di loro tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo“. Un samaritano, tra l’altro: son sempre i più poveri a saper estrarre dalla tasca la moneta più sfarzosa. Tutti gli altri, quando incontrano qualcuno che gli deve gratitudine ne ricordano subito la motivazione. Ma quando incontrano qualcuno al quale son debitori non ricordano più nulla. Il più reietto, invece, torna indietro come chi prende la rincorsa per saltare ancora più in là. E, prendendo la rincorsa, trova che la guarigione era solo il cinquanta per cento: c’era anche la salvezza in palio. Eccola: “Alzati è và; la tua fede ti ha salvato!” (cfr Lc 17,11-19).

Anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare per salvare una persona malata, ci sarà sempre un’anima da tentare fino all’ultimo d’agganciare a Dio. Dire grazie non è questione di buona educazione. È questione di buona spiritualità.

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