Tutte le volte che, al cambiare del governo, cambia il ministero dell’educazione, quale che sia il suo nome, si presente il tema, certamente non banale, del rapporto fra educazione e democrazia: quel che trovo banale è piuttosto il fatto che quasi ogni volta grida al rischio per la democrazia la parte politica spodestata… Su questo tema, e su come sia stato interpretato nei 75 anni dalla Costituzione che assegna alla scuola il compito fondamentale dell’educazione alla cittadinanza, ci sarebbe da scrivere un intero libro, impresa al di sopra delle mie capacità (e a dire il vero, anche di quel che rientra nei miei interessi). Però ho provato a riordinare le idee su come si possa ragionare, e possibilmente trovare un’intesa, sul modo di intendere la relazione fra educazione e democrazia.

Il punto di partenza, ormai largamente condiviso, è il fatto che l’educazione è centrale per fondare le conoscenze della società, dei gruppi e delle persone, e che nella nostra società l’istituzione deputata a questo scopo è la scuola. Non intendo certo sottovalutare il ruolo fondamentale della famiglia, e nemmeno l’importanza che hanno gli altri attori sociali, ma mentre ogni famiglia e ogni istituzione sono libere, compatibilmente con i principi della Costituzione, di sviluppare un proprio progetto educativo, i principi comuni della convivenza civile vengono trasmessi dalla scuola, che è appunto un’istituzione pubblica, e come tale gioca un ruolo importantissimo nella strutturazione della società: questo spiega l’interesse di chi detiene il potere a controllarla. Una scuola che riproduca le diseguaglianze o le ingiustizie presenti nella società (in ogni società!) e non si sforzi di ridurle, ha conseguenze non solo economiche: può, come scrive Basil Bernstein, “disseccare le sorgenti dell’affermazione di sé, della motivazione, dell’immaginazione, e può così diventare, e spesso diventa, una minaccia economica e culturale per la democrazia. L’educazione può avere un ruolo cruciale nel creare l’ottimismo di domani nel contesto del pessimismo di oggi”.

Mi sembra importante sottolineare che per realizzare una maggiore giustizia non basta il diritto all’accesso, è necessario il diritto al successo, che si può ottenere solo con una scuola di qualità. Se si vuole che la scuola sia realmente finalizzata a sviluppare la democrazia, e non solo a parole, servono, oltre alla qualità, altre due condizioni che vedo purtroppo sempre più sbiadite. La prima è che studenti e genitori, ma anche gli insegnanti abbiano un interesse in gioco nella scuola, e e siano interessati non solo a ricevere, ma a dare qualcosa. La dimensione del dono, che è centrale nella natura dei ragazzi e dei giovani, e viene troppo raramente valorizzata, è stata sostituita da un’enfasi sui diritti, senza mai accompagnarla con una pari enfasi sui doveri, e anche da un atteggiamento rinunciatario di molti genitori per cui, come scriveva Antonio Polito una decina di anni fa, “abbiamo abdicato alla nostra funzione per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli”.

La seconda condizione è che i genitori e gli studenti abbiano fiducia nel fatto che le decisioni prese a scuola permetteranno di realizzare i loro obiettivi, e se non ci riusciranno ne spiegheranno le ragioni, possibilmente evitando di attribuire sempre la colpa a qualcun altro. Oggi, temo, la fiducia nella relazione fra gli studenti e gli insegnanti, ma più generalmente fra i ragazzi e gli adulti, è un bene raro: e del resto, chiediamoci se forniamo ai giovani dei modelli di adulto desiderabile, che non sia un influencer o un cantante di X Factor. Alice nel paese delle meraviglie, caduta nel pozzo, cambiava continuamente dimensioni, e affermava che non sarebbe uscita finché non avesse saputo chi era. Perché i ragazzi, impegnati nel difficile compito di costruire la propria identità (di capire chi sono, avrebbe detto Alice) dovrebbero desiderare di impegnarsi, se non si fidano dei loro genitori o dei loro insegnanti e non hanno nessun desiderio di diventare come loro?

Poste queste premesse, finora è stato impossibile arrivare ad un patto educativo che andasse oltre alcuni frettolosi rappezzi, e come ho già avuto modo di dire, non se ne trova traccia nei programmi elettorali. Mi pare che si potrebbe cercare e trovare un accordo su tre obiettivi comuni, tre diritti delle persone:

– il primo è quello che in inglese viene definito empowerment, e che la traduzione italiana come “potenziamento” rende solo in parte. Nella scuola si dovrebbe creare una tensione che include il passato, la tradizione, ma al tempo stesso apre al futuro, puntando a sviluppare il pensiero critico, la capacità di pensarsi nel futuro: non parlo della creatività, che pure mi pare un obiettivo valido, ma piuttosto dell’aver trovato un senso a quello che si fa, che nasce solo in presenza di quella fiducia di cui lamentavo la scomparsa.

– Il secondo diritto è quello all’inclusione sociale, intellettuale e culturale, inclusione che viene spesso interpretata come uniformità, mentre per essere parte di una comunità non è necessario essere tutti uguali, anzi è più fruttuoso conservare la propria autonomia: ma il modello centralistico della scuola italiana tende a considerare la diversità come un rischio, e non come un’opportunità di arricchimento. L’atteggiamento verso le scuole non statali è la forma istituzionalizzata di questa differenza: ti considero di pari valore solo se rinunci ad essere te stesso.

– Da ultimo, è fondamentale il diritto alla partecipazione, che temo esista solo, o prevalentemente, a livello di parole, senza estendersi alla pratica, una pratica che abbia dei risultati. I ragazzi devono esser aiutati a capire, o meglio a sperimentare, che partecipare vuol dire acquisire procedure per mezzo delle quali si costruisce, si conserva e si modifica la società. La partecipazione è la condizione per la pratica civica, ed è alla base della politica: è possibile che il disinteresse attuale per la politica trovi in parte la sua origine nella partecipazione fasulla e asfittica che i ragazzi e le loro famiglie sperimentano nella scuola.

Naturalmente, questo richiede una traduzione in curricoli, contenuti delle materie, sistemi di valutazione, e soprattutto formazione degli insegnanti: ma se si parte dalla coda (gli aumenti salariali, le ore di lezione…) il rischio è quello di fermarsi lì, producendo una scuola di basso profilo e corto respiro, che con il “merito” non ha nulla da spartire.

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