Mi viene da partire, come a volte mi accade, da una storia piccola, una roba minima, un’esperienza che meglio di tutti la saprebbero dire Guareschi o Jannacci.

La roba minima è, da un lato, che c’è nel mio paesotto lombardo, Pozzuolo Martesana, un Banco di solidarietà che aiuta con generi alimentari le famiglie bisognose. Dietro questo aiuto c’è tutto un backstage di lavoro per stoccare derrate e predisporre per bene le forniture da consegnare a casa dei bisognosi. Dall’altro lato, compare da una cittadina vicina, Cernusco sul Naviglio, un’associazione che si prende cura dei ragazzi autistici. Il prendersi cura si attua anche in momenti guidati da educatori in cui ridestare e mettere a frutto le potenzialità di capacità creative e operative dei ragazzi. L’associazione si chiama “I gigli del campo”, e mai ragione sociale fu più azzeccata.

Veniamo ai fatti. Ogni giovedì mattina quattro “gigli”, cioè ragazzi autistici, vengono al Banco di Pozzuolo con tre educatori (o educatrici, beninteso). Confezionano qualche pacco di quelli destinati ai bisognosi.

La domanda

Accade da un mesetto. L’altro giorno mi arriva dai capi dell’Associazione questa proposta: “Ciao Maurizio, stiamo raccogliendo testimonianze in vista del Christmas Charity Dinner dei Gigli del Campo. Abbiamo pensato a te, visto che i nostri ragazzi stanno facendo l’attività al Banco di solidarietà di Pozzuolo. In particolare, ti facciamo questa domanda: Cosa ti colpisce guardando i nostri ragazzi al lavoro al Banco ed eventualmente questo porta una novità o un valore aggiunto nel tuo lavoro al banco o nella società?”

La risposta

Ho risposto come segue.

Li ho guardati scendere, subito il primo giorno, dal pulmino e percorrere, loro quattro con i tre educatori, il centinaio di metri dal parcheggino al cortile dove c’è il magazzino del nostro Banco di solidarietà, che è sulla via centrale del paese. Uno di loro cammina sciolto, una visibilmente più impacciata, un altro con la mano nella mano dell’educatrice, una infine gesticolando un po’ scompostamente in maniera strana, ogni tanto emettendo un verso stridulo.

Tutti possono vedere che questi sono, come si usa dire, “diversi”. Ma a loro di essere “uguali” agli altri non gliene frega proprio niente; e io mi scopro ad ammirarli per questo. Ognuno è pienamente libero di essere sé stesso. Mi piace che i pozzuolesi, per pochi che siano lì nei pressi, vedano me, o chi per me, cioè la realtà di amici del Banco, in loro compagnia.

Poi li ho guardati al lavoro, nella nostra sede. Ci pensano gli educatori e le educatrici a guidarli con i metodi e i tempi adatti a ciascuno di loro. Le scritte, il linguaggio, va tradotto; servono immagini, e quant’altro, una cosa non proprio facile. Vedo che c’è chi fa più in fretta, chi meno, chi esegue più compiutamente, chi no. Ma fanno tutti un buon lavoro. Da perfezionare, magari, ma utile.

La lezione

E qui scopro quanto c’è da imparare. Lavorando così, con cura, come possono, essi ci insegnano che lavoro non è la performance o il profitto che si valutano solo misurandoli in soldi, ma innanzitutto l’azione, il gesto, il modo con cui la persona si esprime e realizza sé stessa, applicandosi alla realtà. Ci insegnano, anche, che ogni atteggiamento di pretesa non migliora, ma frena e rovina. Anche se è l’atteggiamento di uno che crede di fare del bene.

Ancora, li guardo quando in una breve pausa accettano (o anche rifiutano, eventualmente) un biscotto o un cioccolatino. Mi appaiono… belli. Cacchio, dico proprio belli. Belli cioè creature, volute; persone per così dire allo stato puro, non diminuite. Gigli appunto. I gigli del campo, quelli che “il Signore veste”, non sono il risultato degli incroci di un valente giardiniere.

La purezza del giglio è mirabile e attira rispetto, amore. Si deve averne cura. Ne hanno cura, nel caso nostro, gli educatori; ma io stesso, o chi per me, è indotto ad avere cura, per esempio a non fare rumori improvvisi, non gridare, non creare disturbi che per loro possono essere destabilizzanti e addirittura dolorosi.

Questo aver cura, prendersi cura, appare allora ancora più importante che “guarire”. Si può non riuscire a “far guarire”. Ciò non ci esenta dal prenderci cura dell’altro.

E non esenta noi che, magari illudendoci, autistici non siamo, dal renderci conto, magari proprio attraverso i Gigli, che se ci siamo è perché c’è chi si prende cura di me, di noi; e che io, noi e loro abbiamo lo stesso valore infinito.

Perciò il bello della vita è la gratuità.

Chi volesse costruire una società perfettamente assistita senza bisogno di questo, ci provi.

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