Il buon giorno si vede dal mattino, dice il proverbio; e siccome la saggezza popolare spesso ci azzecca proviamo a vedere a partire dal mattino che ci sta presentando il Governo se la sanità farà rima con sussidiarietà.
L’occasione ci viene dalle dichiarazioni che l’onorevole Marcello Gemmato (Fratelli d’Italia), farmacista, sottosegretario di Stato alla Salute (cioè vice-ministro) nel nuovo Governo uscito dalle recenti elezioni, ha rilasciato in questi giorni a proposito del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nel quale riconosce come principali difetti i tre seguenti: a) il primo male della nostra sanità è la riforma del Titolo V della Costituzione effettuata nel 2001; b) il secondo male sono gli scarsi investimenti in sanità; c) la terza grande criticità è l’assistenza territoriale. Tutti e tre gli argomenti meritano di essere approfonditi, ma in questo breve contributo ci fermiamo sul primo punto critico perché ha direttamente a che fare con il titolo di questo giornale e della Fondazione per la Sussidiarietà.
Per chi non è aduso a questi temi proviamo a spiegare in modo semplice ed essenziale in cosa è consistita per la sanità la riforma del titolo V della Costituzione avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001. La riforma ha affidato la tutela della salute alla legislazione cosiddetta “concorrente” tra Stato e Regioni, ampliando il ruolo e le competenze delle autonomie locali attraverso la delega a Regioni e Province autonome non dei principi del SSN, ma dell’organizzazione e della gestione dei servizi sanitari.
Per i critici della riforma questa “concorrenza” anziché portare a un federalismo solidale ha finito per generare una deriva regionalista, con 21 differenti sistemi sanitari, sistemi che non garantiscono l’omogeneità territoriale relativamente ai diritti costituzionali riconosciuti (universalità, equità e uguaglianza di accesso alle prestazioni, centralità della persona, globalità della copertura assistenziale, ecc.). Sempre secondo i critici, il sistema non ha funzionato soprattutto per la mancanza di senso di responsabilità e l’incapacità di alcune Regioni, in particolare del Mezzogiorno, dove si assiste contemporaneamente alla presenza di livelli inadeguati di erogazione dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) e di deficit finanziario che genera aliquote Irpef più elevate per i cittadini.
Stupisce, innanzitutto, che a dire che il principale problema del nostro SSN è la riforma del Titolo V della Costituzione sia un esponente di Fratelli d’Italia: l’argomento non era nel programma elettorale del suo partito, e non era nei programmi elettorali nemmeno della coalizione di centro-destra ora al governo. Non ci saremmo invece stupiti se l’affermazione fosse stata fatta dal Movimento 5 Stelle o da Azione-Italia Viva perché nel programma elettorale di questi partiti erano presenti proposte per la riforma del titolo V della Costituzione nell’ottica di ridare più poteri allo Stato centrale in campo sanitario.
Che il comportamento delle Regioni, probabilmente non tutte ma di sicuro almeno un buon numero, sia stato in questi anni criticabile da tanti punti di vista è un dato di fatto, anche se è discutibile se ciò sia dipeso dall’impianto federalista introdotto dalla riforma o da altre motivazioni, anche preesistenti alla riforma stessa. Peraltro è pure un dato di fatto, però, che lo Stato ha avuto a disposizione molti strumenti per pretendere dalle Regioni il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti da riconoscere ai cittadini. Vediamone alcuni.
– La Conferenza Stato-Regioni. È il luogo dove avviene formalmente la discussione tra le Regioni (nella loro massima espressione politica: i Presidenti) e gli organi centrali dello Stato (i diversi Ministeri), e dove possono essere risolte le eventuali controversie istituzionali. È un luogo di evidenti contrasti ma anche di necessarie mediazioni: deve essere fatto funzionare affinché il federalismo solidale previsto dalla riforma possa produrre i suoi effetti positivi.
– Il finanziamento delle Regioni. Non tanto relativamente alle modalità con cui il Fondo Sanitario Nazionale può essere suddiviso tra le regioni stesse (perché su questo lo Stato non ha titolo), bensì nella valutazione della spesa delle Regioni, e in particolare l’eccesso di spesa e le sue possibili conseguenze.
– Il processo di valutazione dell’erogazione dei Lea (il cosiddetto percorso degli “adempimenti”). È il più importante percorso con il quale lo Stato, attraverso una modalità condivisa con le Regioni, sottopone a valutazione l’erogazione dei livelli essenziali, derivandone le opportune conseguenze in termini di premio ovvero di penalizzazione.
– La realizzazione dei progetti previsti dal Pnrr stimolando, anche attraverso lo strumento economico e le attività di controllo, le proposte che favoriscono la realizzazione dei principi del SSN, la diminuzione delle disuguaglianze, e l’utilizzo efficiente delle risorse.
E si può continuare elencando molti altri momenti più specifici e iniziative dedicate nelle quali si può agire per far funzionare la riforma del titolo V. Se tutti questi strumenti non riescono a raggiungere i loro obiettivi è evidente che si deve fare di più e ci si può impegnare anche per trovare altri e più efficaci strumenti: si deve però evitare di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca perché, come abbiamo più volte ribadito da queste colonne, la sanità è intrinsecamente sussidiaria. Ridare più poteri allo Stato centrale in campo sanitario sottraendolo alle Regioni non avvicina la sanità al cittadino, non risolve meglio i suoi bisogni, non porta la persona al centro del SSN, non garantisce l’erogazione dei Lea.
A ben guardare, però, non ci sono solo le dichiarazioni del Sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato. Nella stessa occasione in cui ha parlato il Sottosegretario è intervenuto anche il Ministro Schillaci, il quale ha successivamente rilasciato dal suo ufficio al ministero una lunga intervista alla stampa: in entrambe le occasioni senza fare alcun accenno alla riforma del titolo V. Vedremo chi la spunterà.
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