La rimodulazione del Reddito di cittadinanza (Rdc) è stata gestita dal Governo Meloni – ma non diversamente dall’opposizione – con premesse di politica finanziaria e cautele finali di tipo sociale. Nel processo decisionale e nel confronto fra i partiti la politica del lavoro non è mai entrata. Era però arduo attendersi il contrario, quando l’introduzione del Reddito di cittadinanza – per iniziativa di M5S – era maturata su premesse elettorali, realizzate con conseguenti stanziamenti di bilancio.
Fin dapprincipio il Rdc è stato proposto in chiave prettamente assistenzialistica: di “quasi-voto di scambio” rispetto a segmenti dell’elettorato che hanno regalato a Luigi Di Maio un trionfale 32% del Parlamento nel 2018, salvo poi non rieleggerlo lo scorso 25 settembre. E al netto delle traiettorie politiche e personali di Di Maio e delle traversie interne al partito grillino, è risultato immediatamente evidente come il Reddito di cittadinanza sia stato partorito con mezzi e fini molto lontani da quelli che caratterizzano analoghi “attrezzi” del Governo, in Paesi che l’Italia voleva e dovrebbe ancora imitare. Il “Reddito di cittadinanza” nella sua formulazione più autentica è una solidarietà che uno Stato eroga – a termine – a suoi cittadini temporaneamente privi di minimi mezzi di sussistenza in cambio non del voto all’una o all’altra forza politica, ma dell’impegno condiviso da parte dei percettori a ritrovare un’occupazione e/o a seguire percorsi di studio/formazione (anzitutto i “Neet”).
Il Reddito di cittadinanza in salsa grillina ha fin da subito tentato di proteggersi su questo fronte con una misura posticcia: i “navigator” hanno appesantito le fila dei precari pubblici senza minimamente offrire opportunità ai disoccupati. Da qui avrebbe dovuto ripartire “tout court” qualsiasi tentativo serio di riformare il Reddito di cittadinanza: non da un sostanziale rinvio al 2024 deciso dal Governo in manovra. Gli annunci – “il Reddito di cittadinanza sarà mantenuto soltanto a chi può vantare requisiti stretti” – sono stati confermati solo in via nominale in uscita da palazzo Chigi. Un Governo di un Paese del G7 avrebbe dovuto promettere entro sei mesi un “algoritmo” amministrativo non solo efficiente a affidabile non per escludere dal Reddito di cittadinanza gli “occupabili”, ma anche e soprattutto per “includere” davvero questi ultimi nel mercato del lavoro. Da come l’aggiustamento è maturato non è invece affatto certo che l’impegnò sia mantenuto al prossimo 31 agosto.
L’obiettivo alto-politico del Reddito di cittadinanza è aiutare i cittadini a trovare lavoro, non quello di emarginarli nei ghetti dell’assistenzialismo. E se quello del lavoro è un “mercato” consolidato – nel quale i “navigator” si sono rivelati figure avulse, così come il vecchio monopolio statale del collocamento – allora il superamento del Reddito di cittadinanza e il ritorno di focus per le politiche attive del lavoro dovrebbe rilanciare il ruolo delle agenzie private su cui aveva scommesso il Jobs Act, salvo poi allontanarle dall’orizzonte della public policy per un quinquennio. Finché il Reddito di cittadinanza resterà spesa improduttiva e non si trasformerà in investimento in “lavoro di cittadinanza” (diverso dalla “pubblica utilità”), certamente una coalizione di centrodestra ritornata al Governo dopo undici anni avrà mancato un suo obiettivo proprio e fondamentale.
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