Il papa e il segreto del Bahrein

Molti vedono nel viaggio di Francesco in Bahrein una chimera. In realtà di stravagante ci siamo soltanto noi e le nostre caduche certezze, i nostri vecchi schemi

Mentre l’Occidente si arrovella in un mortale gioco di interessi che rischia di farlo scivolare nel burrone di una guerra mondiale, quello che un tempo era il leader spirituale dell’Occidente, il Papa, l’istituzione che rammendò sotto un unico vessillo l’eredità classica e le spinte dei “popoli nuovi” fondatori del medioevo, lascia Roma e visita il Bahrein, la monarchia costituzionale dei “due mari” che trova in Manama la sua capitale. Il Bahrein è il nono Stato a maggioranza musulmana visitato da Francesco dopo Turchia, Albania, Emirati Arabi, Azerbaijan, Egitto, Marocco, Iraq e Kazakistan. La visita di Bergoglio è, dunque, dichiaratamente strategica: è convinzione profonda del pontefice – infatti – che dinanzi alle divisioni del mondo le religioni debbano sempre più essere profezia di unità e di pace. Le fedi abramitiche hanno il dovere non di perseguire un generico sincretismo o irenismo, ma una strada di dialogo, di incontro, di mutuo riconoscimento e collaborazione perché la loro unità possa essere medicina capace di curare le tante ferite della terra.



Chiaramente davanti ad una missione così ardita qualcuno potrebbe storcere il naso e dire, con fare scocciato, che il Papa dovrebbe occuparsi della sua religione e della sua Chiesa che sta cadendo a pezzi, cedendo ogni giorno il passo al secolarismo e al nichilismo. Costoro sostengono che il dialogo intrapreso in questo secolo non abbia reso più cristiani gli atei, ma più atei i cristiani. Non sono provocazioni di poco conto, ma sono affermazioni che saltano a piè pari il metodo del cristianesimo: Dio infatti preferisce qualcuno, come Abramo o Saulo di Tarso, per raggiungere tutti. Se la preferenza di Dio non diventa abbraccio e sollecitudine al mondo intero, essa si inaridisce, perde vigore, resta come un feticcio privo di senso incapace di suscitare interesse.



Non è pensando ai nostri problemi che i problemi si risolvono, ma è nella fedeltà alla chiamata che ciascuno di noi ha ricevuto che le nebbie dell’insicurezza e della confusione si diradano. Molte volte vorremmo che tutto fosse sistemato prima di iniziare a vivere, che tutto fosse chiaro prima di decidere, che tutto fosse evidente prima di rischiare. Eppure da sempre, lo sappiamo, la realtà si rende trasparente nell’esperienza, nella sequela, nella perseveranza lungo la strada intrapresa.

Tuttavia qualcuno potrebbe obiettare che certamente questo è tutto vero, ma rivolto al rapporto con l’islam si tratta di pure utopia, ideologia: non è possibile che accada il miracolo dell’unità e della pace, non è possibile voltare pagina rispetto a conflitti millenari e a efferati eccidi. Il possibile è certamente una categoria nobile, ma l’impossibile è la categoria di Dio. Noi non abbiamo potere sulla realtà, potere sulla storia, potere sui nostri figli, sulla nostra famiglia, sulla Chiesa o sul tempo. Noi possiamo solo servire o ostacolare il Signore della storia, della realtà, della Chiesa e del tempo. Il papa non si pone come padrone, ma come servo, richiamando ciascuno di noi – in casa come a scuola o in università – a servire, a svuotarci di ogni nostra brama di possesso, per star dietro all’abbraccio di Dio. La Chiesa si riforma seguendo un Altro, la Chiesa cambia servendo un Altro. E così la nostra famiglia, la nostra comunità, il nostro lavoro o la nostra capacità educativa non si nutre mai dei nostri atti di buona volontà, bensì della nostra rinnovata appartenenza.



Il punto, ed è questo il dramma, è che esiste in noi un’ultima pigrizia: nessuno ha voglia che le cose cambino davvero perché ciascuno sa che cosa fare in questa situazione, ma non sa come comportarsi in un mondo diverso, in un cammino nuovo. Siamo noi i veri oppositori ad ogni cambiamento, siamo noi i Faraoni che impediscono ad Israele di partire e di lasciare la terra della morte e della schiavitù.

Molti vedono nel viaggio di Francesco una chimera, una stravaganza di un uomo “fuori dal mondo”. In realtà di stravagante ci siamo soltanto noi e le nostre caduche certezze, aggrappati ad un mondo che ormai non c’è più, intrappolati in schemi di cui si può avere solo nostalgia. Sempre più simili all’orchestrina che continua a suonare sul ponte del Titanic. Incapaci di vedere qualunque iceberg, incapaci di arrenderci all’uomo vestito di bianco che – fin da tempi non sospetti – prepara e offre all’umanità intera una nuova scialuppa di salvataggio.

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