Se fino a qualche anno fa l’approssimarsi del Natale poneva la questione di richiamare la società al significato autentico della festa, il biennio pandemico ha introdotto anche questo tempo così speciale in una dimensione nuova, post-cristiana. Dalla Galleria La Fayette di Parigi alla Grand Place di Bruxelles, passando per Plaza Mayor di Madrid e Marienplatz di Monaco, nessuno si vergogna più del Natale. Gli imbarazzi con cui negli anni addietro si guardava alla fine di questo mese, subodorando un’inestirpabile impronta religiosa dietro la ricorrenza, sembrano ormai definitivamente dimenticati.

Ed è inutile lamentarsi per le luci, per il consumismo in tempo di guerra, per i cuori presi dalla festa ma distanti dal festeggiato: non è mettendosi in un angolino a spiegare a tutti come si dovrebbe vivere che le cose cambiano. E non solo per una questione di spirito del tempo, ma anche – e soprattutto – perché quanto avvenuto in tema di secolarizzazione è accaduto anzitutto dentro di noi. Ed è lì, dentro ciascuno, il cuore del problema.

Eppure, qualcosa resiste. È difficile pensare che prima o poi, come accadde in Italia con l’Ascensione e la Pentecoste e come accadrà di certo per altre feste, qualcuno proponga di abolire il Natale o di accorparlo alla domenica più vicina. La sacralità laica che ha assunto questo giorno ha un’autorevolezza tale che a nessuno – almeno in questo secolo – viene in mente di scalfire.

Uno squarcio di tutto questo è visibile nelle nuove generazioni nate nel nuovo millennio, che niente sanno di comunisti e cattolici, di muri di Berlino o di Torri Gemelle che crollano. Generazioni il cui primo ricordo collettivo, in molti casi, è la follia jihadista che porta la morte al Bataclan. Si tratta di ragazzi tra loro molto diversi, nuovi europei che in numero non piccolo vivono nelle periferie delle grandi città, dove sopravvivono con espedienti e leggi tribali – alcune volte mafiose – sognando che l’unico ascensore sociale oggi rimasto, il successo, li porti via da una vita che non coincide con i luccicanti lustrini che animano i social di cui si nutrono.

Certo, ci sono anche i ragazzi che “stanno molto bene”, quelli che vivono sull’onda di un benessere nichilista che grazie al denaro li esime dal sacrificio, dalla fatica, dal dolore necessario della conquista. E infine ci sono pure i ragazzi della borghesia, un ceto certamente in estinzione per come lo abbiamo conosciuto nel XX secolo, ma che ha ancora oggi ragazzi di condizioni più o meno normali che trascorrono la loro esistenza tra la frustrazione di molti genitori che temono un loro rimprovero e una costruzione virtuale delle relazioni che li rende molto complicati nella tipica attitudine umana dello “stare”, del “permanere”. Su tutti, spiace dirlo, incombe il fantasma delle sostanze – leggere o pesanti poco importa – che promettono di anestetizzare almeno un po’ il dolore del nulla che pervade ogni cosa.

Fa sorridere pensare che per molti opinionisti, anche laici, la panacea di tutti i mali sia il ritorno del cristianesimo. Nelle coscienze dei nostri figli è avvenuta una guerra che ha lasciato macerie ovunque: più che della cristianità, bisognerebbe dirlo con un filo di lacrime, essi hanno bisogno di Cristo.

Il punto, e qui la cosa si fa molto interessante, è che loro lo sanno, in fondo lo sanno. Basterebbe ascoltare con umiltà voci come quella di Tedua o di Lazza (ne cito due perché il panorama frastagliato della trap è immenso), personaggi come Sangiovanni o Madame o fare qualche domanda ai più grandi, Ultimo, Miss Keta o Blanco. Tutti sanno che attendono qualcosa. E non è guardando questi mondi con sufficienza che quell’attesa può finalmente esplicitarsi. Infatti ciascuno di essi sa che aver detto loro che appartenere era brutto, era ideologico, era umiliante la dignità dell’uomo, non li ha resi più liberi – come promesso – ma semplicemente più soli.

I ragazzi sentono tutta la solitudine dell’universo, sentono il dolore che pulsa, le domande che tolgono il fiato. Si tagliano per questo, non mangiano per questo, fumano per questo, non si sentono più a casa nel loro corpo per tutto questo. Ed è lì, in questo drammatico cuore che – come dice Leopardi – sta, non viene meno, come una torre in campo aperto, che li raggiunge il Natale, la speranza che qualcosa cambi, che il Cielo si muova, che gli uomini capiscano.

È chiaro: molti di loro vivono ancora nell’illusione che l’avvento di un mondo nuovo – secondo le istanze ambientali, ideologiche e sociali che hanno in testa – possa fare giustizia della rabbia che si portano appresso. Ma tutti in fondo sanno che la grande partita, La partita con la “l” maiuscola, non è nei nuovi diritti o nelle rivendicazioni sociali, ma è col vicino di banco, col compagno di università, con la chat del calcio o della pallavolo, col proprio corpo. Essi sanno, perché lo presentono, che tutto è minacciato dalla morte e che la grande partita è con lei, con la sfida che essa lancia al desiderio della vita.

Ecco: a Natale, forse per pochi istanti, ciascuno di loro torna consapevole che forse quella partita si può vincere, che forse l’universo non ci ha lasciato soli, che forse la notte può essere davvero squarciata da qualcosa, da Qualcuno.

Se volete farvi un regalo per questo Natale, provate a guardare il volto di uno di questi ragazzi. Provate a guardarlo in silenzio, senza commentare o annotare dentro di voi alcuna impressione: guardateli e state in silenzio. Datevi del tempo per farlo senza che vi notino. Potreste cogliere, in un istante rubato, tutta la domanda che si portano dentro. Tutto il bisogno che hanno che – dietro queste luci e questi addobbi – si ritorni a festeggiare Qualcuno. Quel Cristo che nacque in una notte lontana e in una terra straniera per vincere la morte e ogni morte. Quel Cristo che non ha smesso mai, nemmeno in questi nostri strani giorni, di aspettarci per scaldare il nostro cuore con la potenza della Sua Misericordia.

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