Un comunicato stampa di settore, a fine anno, di regola non offre spunti di riflessione a livello di Azienda-Paese. Quello appena pubblicato da Federmacchine negli ultimi giorni di un 2022 per molti versi eccezionale merita invece di essere letto come prisma su un’intera economia fondata sulla manifattura. E non solo perché quello dei beni strumentali è un segmento che vale doppio in termini di contributo alla competitività esterna del Sistema-Italia e al ritmo dell’innovazione tecnologica nel più ampio “motore industriale”.
I costruttori di macchine – anzitutto quelli delle tecnologie utensili, raggruppati nell’Ucimu – annunciano la chiusura di un esercizio “molto positivo”. Il fatturato del settore è cresciuto a 54,1 miliardi, con un progresso dell’8,1% sul 2021. Si è quindi consolidato il rimbalzo dopo l'”annus horribilis” del primo Covid. E il trend è stato sostenuto sia dalla domanda interna (consegne a 19,7 miliardi, +14,7%), sia dalla tenuta della quota maggioritaria di export (34,3 miliardi, +4,7%). Considerato quanto è accaduto sul pianeta dopo il 24 febbraio, è comprensibile la soddisfazione di questo campione strategico di imprenditori nazionali: per un risultato niente affatto scontato e per molti versi non coincidente con gli umori dell’opinione pubblica più vasta. La resilienza di questo segmento della meccanica ad alto valore aggiunto è confermata anche dalla buona consistenza dei portafogli-ordini.
Se il consuntivo 22 ha tonalità bianco-rosa, lo scenario 23 si profila invece grigio: ma più netto dell’indefinibile colore di molte previsioni macro. Il settore macchine crescerà ancora, prima a un ritmo decelerato (+3%) con contrazioni in arrivo sia sul mercato domestico che su quelli internazionali. Pesano tutte le incertezze portate dalla crisi geopolitica: l’inflazione sulle materie prime energetiche e il perdurare delle strozzature nelle catene di rifornimento di componenti, create dalla pandemia già prima del conflitto russo-ucraino.
La resilienza delle imprese promette quindi di rimanere attiva, come quella delle famiglie. Ma non diversamente da queste, se nel 2023 la geo-economia dovesse rimanere dura e instabile anche i produttori avranno bisogno di sostegni: che sarebbe improprio definire sussidi e fin d’ora è invece opportuno chiamare investimenti, da inserire in una seria “politica industriale”.
La doppia transizione – digitale ed ecologica – assunta dal NextGenerationEu come bussola già prima che l’emergenza-Covid rimodulasse il Recovery Fund non va depotenziata ma anzi rafforzata: utilizzando come leva il Pnrr impostato dal governo Draghi. Proprio il Pnrr – le cui risorse non sono state spese del tutto nel 2022 – potrebbe consentire un passo importante: il prolungamento tangibile della strategia Industria 4.0 che dal 2017 il sistema-Italia riesce a dipanare come filo rosso di politica per lo sviluppo. Il mantenimento al 40% – senza dimezzamenti – dell’agevolazione fiscale prevista per gli investimenti in nuove tecnologie conferirebbe alla prima Legge di bilancio del Governo Meloni un’impronta “sviluppista” e uno specifico segno di attenzione per un settore centrale e trainante della seconda manifattura Ue.
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